lunedì 9 giugno 2025

Le tappe del fallimento…

Dal Bandoung al fallimento delle speranze:
I «Miti rivoluzionari del Terzo Mondo», di Gérard Chaliand
di Bernard Cassen
 

Un libro coraggioso, che è assai più di un'analisi rigorosa, scritto da uno dei migliori specialisti francesi del "Terzo Mondo" (a proposito del quale, l'autore rifiuta giustamente il valore scientifico di un simile termine onnicomprensivo) (*1). Per Gérard Chaliand, che è stato amico di "Che" Guevara, di Ben Bella, di Sekou Touré e di Amilcar Cabral (a cui dedica il suo libro), bisogna fare un bilancio, nel quale coinvolge anche sé stesso, di tutto ciò che ha costituito il fallimento del "terzomondismo". Ciò che Chaliand definisce come "l'euforia terzomondista", ha avuto iniziò poco prima della fine degli anni '50, con la "Conferenza di Bandoung" (1955), e della quale la guerra d'Algeria e la vittoria dei guerriglieri a Cuba, ne costituiscono l'inizio. "Che" Guevara, Fanon, Régis Debray (quello della "Rivoluzione nella Rivoluzione") ne sono stati i profeti. Il suo mito più tenace era allora  quello della Rivoluzione Tri-continentale: vale a dire, l'esaltazione della lotta armata in quanto tale, e poi, negli ultimi anni, per l'ultrasinistra europea, l'ingenua fede nella potenzialità di essere un'avanguardia rivoluzionaria, costituita dai lavoratori immigrati.

   Gérard Chaliand riconosce di aver creduto in questo mito, e di aver contribuito alla sua diffusione. Ed è proprio perché ne ha misurato tanto la vanità quanto, soprattutto, la nocività, egli i sente autorizzato a dire alcune verità che, nella penna di altri autori che non hanno avuto il suo passato antimperialista, oggi potrebbero addirittura essere scambiate per una provocazione. Ci vuole una certa dose di coraggio per infrangere i miti del continentalismo latinoamericano e della nazione araba, per denunciare il costo terribilmente alto, in termini di vite umane, dovuto nel mondo alla guerriglia iberoamericana, e a fattori negativi come il machismo, l'incapacità di mantenere i segreti e il verbalismo; e poter dire così con franchezza ai palestinesi che i loro errori di analisi e di strategia - dovuti in gran parte a un'incomprensione fondamentale dell'Occidente, fanno sì che essi possano sperare solamente - nella migliore delle ipotesi - in uno «Stato palestinese sulla riva occidentale del Giordano, concesso loro da tutte le parti in causa, compresa la Giordania». Così come avveniva per certi studenti africani rivoluzionari, nelle loro stanze a Parigi, per i quali, del proprio paese, «il più piccolo negoziante o autotrasportatore locale ne sa di più» di quanto ne sappiano loro del proprio Paese.

   Dopo aver tracciato, in una cinquantina di pagine, una notevole sintesi di quali fossero le dimensioni del sottosviluppo, l'autore affronta la questione della lotta armata, parlando dei suoi fallimenti e di alcuni dei suoi rari successi: il P.A.I.G.C. in Guinea-Bissau, l'F.N.L. nel Vietnam del Sud. E mostra in che modo, tanto il successo quanto il fallimento della guerriglia, sia stato in realtà dovuto all'identificazione, o alla non identificazione, con i valori nazionali, alla resistenza al nemico straniero, e in che modo, a tal riguardo, il caso cubano sia stato assai specifico. Nel libro, ci ricorda anche – a partire dagli esempi del Vietnam, della Cina e della Corea – in che modo il successo di una rivoluzione progressista sia dovuto alla coniugazione tra obiettivi nazionali, un'ideologia rivoluzionaria modernizzatrice e a una tradizione che non sia ostile ai primi due fattori. Questo "spessore" presente in ogni tradizione locale o nazionale, volontariamente ignorato, se non addirittura negato dagli strateghi trans-nazionali, non può essere trascurato. Per comprendere appieno la straordinaria capacità di resistenza del popolo vietnamita, è necessario tener conto della tenuta di lunga durata della solidarietà nei villaggi, nel suo essere legata alle istituzioni comunali; così come l'abitudine millenaria al lavoro collettivo, radicato in dei contadini ingegnosi e meticolosi. In tutto questo, viene ben evidenziato e sottolineato, nel consolidamento rivoluzionario, Il ruolo eminente svolto dal mantenimento della lingua e dall'identità nazionale nel consolidamento rivoluzionario è ben sottolineato. L'autore contrappone alcuni regimi africani - i cui leader, essi stessi de-culturalizzati e spesso corrotti, cercano di trincerarsi dietro un culto del “ritorno alle radici” o della “autenticità” per poter meglio mascherare le proprie mancanze - alle società vietnamite e cinesi, le quali «non avendo subito una profonda deculturazione, come accaduto agli arabi, e aiutate dalla tradizione confuciana, hanno avuto assai meno difficoltà a rompere con un certo passato legato alle tradizioni religiose e culturali, nella misura in cui non hanno mai temuto di perdere sé stesse».

   Le conclusioni a cui arriva Gérard Chaliand, non sono esattamente ottimistiche: il Terzo Mondo appare essere relativamente impoverito, e talvolta lo è in modo assoluto; in alcune aree, le malattie endemiche e la malnutrizione causano degenerazioni fisiche e mentali irreversibili. Di fronte a una realtà così cupa, troviamo sempre più delle «autocrazie spesso sanguinarie, se non grottesche», dove vediamo invece delle società ed élite che «attingono al proprio patrimonio socio-culturale e sono determinate a superare le difficoltà». Naturalmente, come dice l'autore nella sua prefazione, è facile raccontarsi storie, ma questo non cambia però il corso della storia. "I Miti rivoluzionari del Terzo Mondo" è un libro salutare. Quanti combattenti coraggiosi sono morti per niente, proprio a causa del volontarismo di teorici o di leader tagliati completamente fuori dalla realtà? La vera solidarietà con il Terzo Mondo esige franchezza, richiede un'analisi dei difetti, e non la mitizzazione degli atteggiamenti, che sono sempre semplicemente delle pose grazie alle quali l'intellettuale europeo regola in realtà quelli che sono i suoi conti con la propria cattiva coscienza. A questo proposito, il libro di Gérard Chaliand rimane un contributo di primaria importanza, oltre a rappresentare un dialogo nuovo e impenitente tra i progressisti del mondo capitalista industrializzato e il Terzo Mondo.

Bernard Cassen - Pubblicato nel mesi di aprile del 1976 su Le Monde diplomatique


(1) , Gérard Chaliand : Mythes révolutionnaires du Tiers monde, Guérillas et socialisme, Le Seuil, Paris, 1976, 272 pages, 35 F.

domenica 8 giugno 2025

Per Isole…

Antiche leggende, storie marinare, carte geografiche di coraggiosi esploratori, fantastici viaggi alla ricerca di luoghi mai esistiti: dalla magica isola di San Brandano all’isola dei Diavoli, misteriosamente scomparsa tra il Canada e la Groenlandia; dall’isola di Buss, che astuti marinai riuscirono a vendere alla Compagnia di Navigazione dell’Hudson anche se nessuno vi aveva messo mai piede, al fantomatico regno delle isole Frisland, un regno inesistente, sebbene i suoi prodigiosi prodotti venissero venduti a caro prezzo dai commercianti veneziani. Nella gloriosa epoca delle scoperte i primi navigatori si trovarono di fronte a un mondo selvaggio, più pericoloso e terrificante di qualsiasi rotta terrestre. Quando i marinai tornavano dai loro viaggi, le storie raccontate di nuove terre ampliavano i confini del mondo. Sulle mappe cominciarono a comparire così nuove isole che riempirono spazi fino ad allora vuoti. Donald Johnson si è rimesso in mare, seguendo le mappe degli antichi navigatori e utilizzando le stesse imbarcazioni di quattro secoli prima. E così, con l'ausilio di rudimentali strumenti di orientamento ha ripercorso le rotte dell'Atlantico alla ricerca delle isole leggendarie.

(dal risvolto di copertina di: Donald S. Jonshon, "Le isole fantasma. Sulle rotte atlantiche alla ricerca di isole leggendarie". Traduzione di Stefania Manetti, Odoya, pagg. 200, € 18)

Le isole fantasma riappaiono nei racconti
- di Paolo Albani .

Se soffrite di mal di mare, allora è meglio che non leggiate questa recensione perché, nelle poche righe che vi attendono, ci inoltreremo in mari schiaffeggiati da tempeste furibonde, infestati da mostri grotteschi e pericolosi. Lo scompiglio marittimo nasce ripercorrendo, insieme allo scrittore-navigatore Donald S. Johnson (1932), le rotte dell’Oceano Atlantico alla scoperta di isole fantasma, che, attenzione, non sono isole immaginarie, come quella dell’Utopia di Thomas More o dei cinocefali di Zaccaria Serimán, bensì sono isole esistite realmente, almeno nei racconti di marinai e di famosi esploratori, presenti sulle carte geografiche dei tempi antichi e poi sparite, svanite nel nulla. Secondo Muhammad AlIdrisi, geografo arabo del dodicesimo secolo, nell’Atlantico si contano quasi 27.000 isole. Sarebbe impossibile esplorarle tutte. Perciò Johnson ne ha scelte alcune, per non farle cadere nell’oblio. Le isole fantasma sono il frutto di carte geografiche poco dettagliate, di una misurazione della latitudine e della longitudine che si presenta ardua, di frequenti errori geografici creati da cartografi che cercano di conciliare i più disparati resoconti delle scoperte fatte, così che, alla fine, su alcune mappe compaiono isole mitiche: Heather-Bleather, Tir-n’an-og, Gog e Magog, Drogeo, Podanda e Neome, isole ingannevoli, mere illusioni che affiorano dalle mappe come miraggi e dopo, per l’impossibilità di verificarne l’esistenza, vengono eliminate, s’inabissano.

   Sulle isole dell’Atlantico, chiamato dai geografi Arabi il Mare dell’Oscurità o il Grande Mare Verde delle Tenebre, esiste una marea (è il caso di dirlo) di fiabe e leggende, greche e romane, ma anche di storie che affondano nella mitologia dei celti e degli antichi popoli scandinavi, cronache inventate che ben presto vengono soppiantate dalla geografia delle osservazioni, cioè dai diari di navigazione degli esploratori. Dopo aver passato in rassegna le conoscenze geografiche degli antichi, quelle in auge nel Medio Evo e fra i musulmani, Johnson si sofferma sul rinato interesse in Europa occidentale per le esplorazioni geografiche dovuto in primo luogo alle traduzioni in latino di trattati arabi e di opere greche. A partire dalla metà del XVI secolo, le navi delle maggiori potenze del mondo, Spagna, Portogallo, Francia e Inghilterra, si spingono in mare aperto, scoprono isole degli arcipelaghi atlantici segnalate dalla tradizione e ne trovano di nuove. La molla che dà impulso a questa “esplosione” di esplorazioni nell’oceano è la ricerca di una rotta marittima verso l’Estremo Oriente, il Catai e Zipagu (Giappone), per raggiungere più facilmente i tesori che fanno gola all’Europa: sete, spezie, pietre preziose e profumi. Fra le isole fantasma censite da Johnson, una delle più intriganti è l’Isola dei Demoni, collocata all’estremità settentrionale di Terranova, abitata da animali selvatici, orsi e trichechi, da creature mitologiche come il grifone e infestata da spiriti maligni. C’è poi l’Isola di Frisland, a sud dell’Islanda, scoperta nel 1380 dal nobile veneziano Nicolò Zeno, che forse è un ibrido di isole diverse, anch’essa sparita dalle carte, come accade all’Isola di Buss, avvistata nella regione artica nel 1578, circondata da un vasto strato di ghiaccio, forse sommersa dal mare per azione vulcanica. Vani sono i tentativi di trovare altre isole “leggendarie”, come Antilla e l’Isola di Hy-Brazil, «la Terra Promessa dei Beati». Un alone di leggenda circonda pure l’isola di San Brandano, a forma di pesce, a sud delle Canarie, narrata nel libro anonimo Navigatio sancti Brendani, ritenuto una delle fonti della Divina Commedia di Dante. La storia delle “isole fantasma”, per una bizzarra associazione mentale, a me ricorda quella degli “scrittori fantasma”, anche loro, in un certo senso, paragonabili a “isole della cultura”. Penso al caso di Ambrose Bierce (1842-1913?), autore di un delizioso Dizionario del diavolo, scomparso dopo aver raggiunto l’esercito rivoluzionario di Pancho Villa vicino a Chihuahua in Messico, o al poeta statunitense Hart Crane (1899-1932?) che, dopo essersi imbarcato a Veracruz per raggiungere New Orleans, sparisce nel golfo del Messico, là dove, destino infame!, anche lo scrittore boxeur Arthur Cravan (1881-1919?), partito a bordo di un piccolo scafo, fa perdere le sue tracce, una notte del 1919. Proprio al pari delle isole narrate da Johnson, a volte anche gli scrittori spariscono nel nulla o vogliono essere dimenticati (Robert Walser).

- Paolo Albani - Pubblicato su Domenica del 23/6/2024 -

Gli inizi…

Marx e il dibattito di genere nella Prima Internazionale
- di Inessa Armand -

Quando cinquant'anni fa nacque la prima Associazione Internazionale degli Operai, la Prima Internazionale, il movimento operaio internazionale era agli inizi del suo sviluppo. In alcuni paesi, come la Russia, questo movimento non esisteva ancora pienamente; in altri, era solo all'inizio. Da nessuna parte c'erano partiti politici del proletariato, i socialisti componevano solo piccoli gruppi sparsi, che non rappresentavano ancora una grande forza organizzata. I lavoratori erano riuniti in cooperative, club, sindacati. Ma a quel tempo i sindacati esistevano solo nei paesi più avanzati ed erano in gran parte organizzati solo in Inghilterra. Naturalmente, i lavoratori impreparati erano ancora meno organizzati. Dall'inizio del secolo scorso, il lavoro delle donne è stato sempre più adattato alla produzione e, al momento della creazione della Prima Internazionale, le lavoratrici erano già ampiamente utilizzate nelle fabbriche e nelle officine. In nessun modo le donne lavoratrici erano organizzate, né sapevano come lottare contro il capitale. Pertanto, le condizioni di lavoro erano davvero terribili. Se i lavoratori sono stati sfruttati e oppressi, le donne lavoratrici hanno affrontato condizioni ancora peggiori su scala cento volte superiore. Con il loro uso nelle fabbriche e nelle industrie, la situazione di vita e la lotta della classe operaia erano significativamente precarie. Il calore domestico e la scarsa vita familiare dell'operaio furono distrutti e i bambini furono privati delle cure e delle attenzioni materne. Insieme a questo, il lavoro delle donne si è adattato al capitalismo esattamente come il lavoro più economico e più umile, e i proprietari, nella loro lotta contro i lavoratori, hanno usato il lavoro delle donne come mezzo per peggiorare le condizioni di lavoro o mantenerle al livello precedente, nonché come un modo per dominare i lavoratori non sottomessi. Ad esempio, in caso di sciopero, i lavoratori venivano licenziati e le donne venivano messe al loro posto. Così, all'inizio, l'impiego del lavoro femminile fu una catastrofe per la classe operaia. Non c'è da stupirsi che in queste condizioni le operaie più semplici e inconsapevoli abbiano cercato di combattere il lavoro delle donne, e non hanno permesso alle donne di entrare nelle fabbriche e nei loro sindacati, hanno rotto le macchine. Non è nemmeno un caso che gli operai, ancora più semplicistici e meno consapevoli, abbiano spesso svolto il ruolo di "zerbino", di crumiri. Così, per esempio, nella città inglese di Halifax, nel 1871, ai tessitori fu detto che i loro salari sarebbero diminuiti. I lavoratori scioperarono e al loro posto furono assunte donne. Nel 1872, nella città scozzese di Edimburgo, anche le lavoratrici presero il posto degli scioperanti, e così via. Tuttavia, se la classe operaia e soprattutto la sua ala femminile non erano organizzate, nei paesi più avanzati, come la Francia e l'Inghilterra, il proletariato si opponeva già ai suoi nemici di classe, la borghesia e i capitalisti, e conduceva le sue prime lotte di classe. È vero che i lavoratori, anche se in modo confuso e cieco, cominciarono a individuare la via per la loro liberazione. Molto prima della nascita della Prima Internazionale, nel 1848, gli operai parigini cercarono per la prima volta al mondo di strappare il potere alla borghesia attraverso la rivolta armata, e le operaie combatterono e morirono sulle barricate insieme agli uomini. I lavoratori inglesi, d'altra parte, cercarono con una lotta persistente di ottenere diritti politici e migliorare le condizioni di lavoro. La rivolta della classe operaia francese fu repressa. Ma questo evento servì da lezione a tutto il movimento operaio e aiutò i lavoratori d'avanguardia a capire che per la loro liberazione devono lottare per il potere. Poi arrivarono gli anni pesanti della reazione. Ma poco prima della creazione della Prima Internazionale, i venti della rivoluzione soffiarono di nuovo in tutta Europa. Gli operai inglesi riuscirono a raggiungere la giornata lavorativa di dieci ore, e quelli di Rochdale (un villaggio in Inghilterra) fondarono la prima cooperativa operaia. In altri paesi, la lotta operaia si stava risvegliando. Da qualche tempo, i lavoratori avevano preso coscienza della necessità di unirsi a livello internazionale per lottare contro la borghesia. La Prima Internazionale fu fondata dai lavoratori d'avanguardia francesi e britannici, ai quali si unirono in seguito i tedeschi, gli svizzeri, gli italiani, gli spagnoli e gli americani. In questo modo, la Prima Internazionale fu il primo tentativo cosciente di un'associazione internazionale dei lavoratori. Questa associazione, guidata dai nostri maestri Marx ed Engels, si è presto posta obiettivi rivoluzionari pienamente definiti. La Prima Internazionale cercò di organizzare i lavoratori di diversi paesi per portare avanti la rivoluzione. Ha voluto essere l'organo, lo strumento di questa rivoluzione, e si è posto il compito della lotta politica contro la borghesia, contro la reazione e per il potere proletario. Era anche necessario unire il movimento operaio in modo ideologico. Gli operai di allora, anche quelli d'avanguardia, non avevano ben chiare le questioni più basilari della loro lotta, non erano d'accordo su aspetti che oggi sembrano del tutto semplici e scontati ad ogni operaio. Per esempio: sarà necessario adottare lo sciopero come forma di lotta contro la borghesia? I lavoratori dovrebbero organizzarsi in sindacati? Infine, non avevano chiarito gli obiettivi finali del movimento, la necessità della lotta per il socialismo come unica via per la liberazione dei lavoratori. Tutti questi temi, come pure molti altri, come il rapporto degli operai con la guerra, con lo Stato e con le cooperative, vennero discussi in dettaglio nei congressi della Prima Internazionale. I comunisti dell'epoca, guidati da Marx ed Engels, furono costretti ad affrontare uno scontro violento su ciascuna di queste questioni, da una parte con gli allora menscevichi-proudhoniani, che si dichiaravano contro lo sciopero, i sindacati e il socialismo, e, dall'altra, con gli anarchici. I comunisti riuscirono a prevalere in quasi tutti questi dibattiti. I congressi decisero la necessità di una lotta di sciopero, per la creazione di sindacati, e per il socialismo. In questo modo, i comunisti hanno creato le basi iniziali di un programma di lavoro che, in una certa misura, guida ancora oggi i lavoratori. Ma spettava al movimento operaio delle donne risolvere una questione fondamentale, che avrebbe definito l'intero rapporto successivo dei lavoratori con il movimento operaio: la posizione dei lavoratori in relazione alla presenza del lavoro femminile nell'industria. Spettava ai comunisti resistere alla lotta. Il tema è stato discusso al primo congresso della Prima Internazionale, a Ginevra. Il lavoro delle donne nell'industria ha portato alla classe operaia così tante sofferenze e sacrifici che anche i lavoratori d'avanguardia si sono trovati in un vicolo cieco e non hanno saputo come affrontarlo. Gli allora menscevichi-proudhoniani sostenevano l'idea che la partecipazione delle donne alla produzione fosse barbara. Con interventi toccanti, hanno chiesto che le donne rimangano al calore domestico per proteggere ed educare i loro figli e, nelle loro risoluzioni, hanno proposto di protestare contro il lavoro delle donne come il male che causa il degrado sociale, morale e fisico della classe operaia.

Nella risoluzione proposta da Karl Marx e accettata dalla maggioranza del Congresso, si esprimeva invece un punto di vista completamente diverso. Essa indicava, non solo l'inutilità, ma anche il carattere reazionario di tutti i tentativi di impedire la presenza delle donne nell'industria, o di reinserirle con la forza nell'ambiente domestico. Indubbiamente, le condizioni del lavoro femminile sono terribili, ed è necessario lottare vigorosamente contro le forme abominevoli del suo impiego; ma il lavoro delle donne nelle fabbriche e nelle industrie è buono in sé stesso, perché libera le donne dal giogo familiare, porta la donna lavoratrice fuori dalla ristretta cerchia delle tribolazioni familiari lanciandola nell'ampia arena del lavoro sociale, permette lo sviluppo dell'indipendenza del suo carattere, crea le condizioni necessarie per trasformarla in una combattente che dirige la lotta comune con gli operai. L'operaia non deve lottare pertanto contro il lavoro delle donne, ma deve organizzare la donna lavoratrice, e combattere le difficili condizioni che si trova ad affrontare. Mentre la borghesia reprimeva sempre le donne, le teneva lontane da ogni vita sociale intensamente, mentre la borghesia non riusciva a trovare parole sufficienti per esprimere il suo disprezzo, con frasi come «i capelli sono lunghi, ma l'intelligenza è corta», l'operaio, fin dai primi passi della sua lotta cosciente, desiderava attirare le operaie alla lotta, per chiarire la loro coscienza, per organizzarli. E la Prima Internazionale fece molto per risvegliarli e attirarli alla lotta degli operai. A causa dell'arretratezza del movimento operaio di allora, la Prima Internazionale non poteva abbracciare in modo organizzato le grandi masse dei lavoratori. Ma in relazione agli scioperi che si stavano svolgendo in diversi paesi, la forza e l'irruenza dell'Internazionale continuavano ad espandersi e a prendere piede. Tra il 1866 e il 1870 si svolsero una serie di scioperi in tutta Europa. Il grande sciopero dei bronzisti, a Parigi; scioperi di massa in Inghilterra; gli scioperi incessanti dei minatori in Belgio; scioperi in Svizzera. In tutti questi casi, l'Internazionale ha avuto una parte molto vivace. Organizzò per gli scioperanti l'aiuto e il sostegno dei lavoratori di altri paesi, creando così le prime manifestazioni efficaci della solidarietà internazionale di massa. Ha sostenuto gli scioperanti con la stampa, li ha incoraggiati, li ha aiutati a difendersi in tribunale, mandando loro avvocati, ecc.  Dopo questi scioperi, tutta una serie di lavoratori sindacali dichiararono la loro adesione all'Internazionale. Le operaie presero parte a tutti questi scioperi in modo vivace e aderirono anch'esse all'Internazionale. A Ricamarie, le fabbricanti dei ventagli di seta che hanno scioperato hanno fatto ricorso all'aiuto dell'organizzazione, che li ha aiutati. Dopo di che, si unirono all'Internazionale. Gli operai delle città francesi di Lione e di Rouen procedevano allo stesso modo. Al tempo dei grandi scioperi dei minatori in Belgio, ai quali furono coinvolti entrambi i lavoratori, entrambi dichiararono la loro appartenenza all'Internazionale. E così è stato in altri luoghi. In questo modo, a poco a poco, il movimento rivoluzionario si diffuse in tutta Europa. Molti degli operai d'avanguardia si aspettavano un'esplosione rivoluzionaria. Anche Marx ed Engels guardavano con ansia alla rivoluzione. Ma nel 1870 scoppiò la guerra tra Germania e Francia. Ed ebbe inizio un momento di enorme prova di solidarietà internazionale. Gli operai d'avanguardia resistettero completamente. È vero che non poterono impedire la guerra, perché le masse erano ancora troppo impreparate e disorganizzate. Ma i lavoratori d'avanguardia tedeschi e francesi risposero al conflitto con un'intensa protesta, che ottenne il sostegno dei lavoratori di altri paesi. La guerra si concluse con la sconfitta della Francia e poi con la rivolta degli operai francesi, che portò alla Comune di Parigi. La Comune fu uno dei più grandi eventi nella storia del movimento operaio. Gli operai parigini, disgustati dal tradimento della borghesia francese, insorsero, presero il potere nelle loro mani e formarono il primo governo operaio, che consisteva di rappresentanti degli operai e dei poveri delle città, e assomigliava molto ai nostri soviet. Questa era la Comune. I lavoratori rimasero al potere per due mesi. Ma poi la borghesia francese, con l'aiuto dei tedeschi, è riuscita a farla sprofondare nel sangue. Fin dall'inizio, le operaie parigine parteciparono attivamente a queste lotte e alla costruzione della Comune. Con il loro coraggio e la loro fermezza, nonostante i tempi molto difficili - Parigi era appena passata attraverso la guerra e l'assedio, e gli operai avevano sopportato gravi stenti - sostennero la Comune in tutti i modi, e quando fu necessario difenderla, quando la borghesia, con una crudeltà senza precedenti, cominciò a reprimerla, le operaie formarono gruppi di lotta che, fianco a fianco con gli operai e le armi in pugno, combatterono eroicamente e morirono in nome della Comune. La Comune ha mostrato quale sarà la forza degli operai, cosa dovranno fare quando saranno al comando. La lotta della Comune era la lotta per il potere dell'operaio, senza il quale il proletariato non raggiungerà la sua liberazione. Partecipando alle battaglie della Comune, la donna operaia si unì alla grande rivoluzione internazionale in modo indissolubile, segnò con il suo sangue la nobile lotta del proletariato per il comunismo, che già allora sventolava la bandiera rossa del lavoro. Con l'estinzione della Comune, la Prima Internazionale non durò a lungo, e così si riunì per l'ultima volta nel 1875. In una delle sue ultime lezioni, tenuta a Londra nel 1871, venne ripresa la questione delle donne operaie e della loro organizzazione. Oltre al loro utilizzo nella sezione dell'Internazionale, si decise di creare per loro delle associazioni speciali. Con l'ultima proposta, è evidente che si intendeva stabilire un contrappeso alle associazioni femministe servili, che le donne borghesi cominciavano allora a preparare per le donne lavoratrici.

- Inessa Armand -  fonte: https://blogdaboitempo.com.br/

sabato 7 giugno 2025

il proletariato più debole, più disorientato, meno autonomo e meno indipendente di tutta la storia del capitalismo ….

Radiografia del capitalismo armato
- di Maurizio Lazzarato -

«Non importa quanto grande possa essere una nazione, se essa ama la guerra, allora perirà;
Non importa quanto sia pacifico il mondo, se dimentica la guerra, sarà in pericolo.
»
- Wu Zi, da un antico trattato militare cinese -

«Quando si parla di sistema bellico, ci si riferisce a un sistema come quello attuale, il quale assume la guerra - anche se solo pianificata e non combattuta - come la base e l'apice dell'ordine politico, vale a dire, del rapporto tra i popoli, e tra gli uomini. Un sistema dove la guerra non è un evento, bensì un'istituzione; non una crisi, ma una funzione; non una rottura, ma piuttosto una pietra angolare del sistema: una guerra sempre obsoleta ed esorcizzata, ma mai abbandonata in quanto possibilità reale.» - Claudio Napoleoni, 1986 -

   L'ascesa di Trump è apocalittica, nel senso letterale del termine: serve a rivelare ciò che è nascosto, a togliere il velo, a svelare. La sua agitazione convulsa ha il grande merito di esporre la natura del capitalismo, mostrare il rapporto tra guerra, politica e profitto, tra capitale e Stato; di solito coperto dalla democrazia, dai diritti umani, dai valori e dalla missione della civiltà occidentale. Al centro della narrazione costruita per legittimare gli 840 miliardi di euro di riarmo che l'Unione Europea impone agli Stati membri, attraverso lo stato di eccezione, troviamo la medesima ipocrisia. Armarsi non significa - come dice Draghi - difendere «i valori che hanno fondato la nostra società europea» e che «hanno garantito ai suoi cittadini pace, solidarietà e - con l'alleato degli Stati Uniti - sicurezza, sovranità e indipendenza per decenni»; ma significa piuttosto salvare il capitalismo finanziario. Non occorrono nemmeno grandi discorsi, o analisi dettagliate, per smascherare la povertà di queste narrazioni: per rivelare la verità delle chiacchiere indecenti sull'unicità e la supremazia morale e culturale dell'Occidente, è bastato un altro massacro di 400 civili palestinesi. Trump non è un pacifista; egli si limita a riconoscere la sconfitta strategica della NATO nella guerra in Ucraina, nel mentre che invece le élite europee ne rifiutano l'evidenza. Per loro, la pace significherebbe tornare allo stato catastrofico nel quale hanno ridotto le loro nazioni. La guerra deve continuare perché, per loro – così come per i democratici e per lo Stato profondo degli Stati Uniti – è la via d'uscita dalla crisi iniziata nel 2008, allo stesso modo in cui già accadde con la grande crisi del 1929 . Trump intende risolvere la questione privilegiando l'economia, senza però rinunciare alla violenza, al ricatto, all'intimidazione e alla guerra. E' molto probabile che né lui né gli altri riusciranno nel tentativo, poiché si trovano di fronte a un problema enorme: il capitalismo - nella sua forma finanziaria -  è in profonda crisi, e proprio dal suo centro, gli Stati Uniti, arrivano dei segnali "drammatici" per le élite che ci governano. Anziché convergere verso gli Stati Uniti, il capitale fugge verso l'Europa. SI tratta di grandi notizie, sintomo di rotture imprevedibili, che rischiano di essere catastrofiche.
Il capitale finanziario non produce merci, ma delle bolle che si gonfiano tutte quante negli USA, e che poi scoppiano a danno di tutto il resto del mondo, rivelandosi delle vere e proprie armi di distruzione di massa. Il sistema finanziario statunitense cattura valore (capitale) prelevandolo da tutto il mondo, e lo investe in una bolla che prima o poi scoppierà, costringendo così i popoli del pianeta all'austerità e al sacrificio, per poter pagare i loro fallimenti: prima è stata la bolla di internet, e poi la bolla dei subprime, che ha causato una delle più grandi crisi finanziarie nella storia del capitalismo, aprendo così la porta alla guerra. Hanno anche provato con la bolla del capitalismo verde, la quale però non è mai decollata, e, con l'ultima, la bolla incomparabilmente più grande delle aziende high-tech. Per tappare i buchi dei disastri del debito privato, trasferito al debito pubblico, la Federal Reserve e le banche europee hanno inondato i mercati di una liquidità che, invece di "riversarsi" nell'economia reale, è servita ad alimentare la bolla dell'alta tecnologia, e lo sviluppo di tutti quei fondi di investimento noti come Big Three, Vanguard, BlackRock e State Street (il più grande monopolio della storia del capitalismo, che gestisce 50 trilioni di dollari, ed è azionista di maggioranza delle più grandi società quotate). Ora, anche quella bolla sta appassendo. Anche se dimezziamo l'intera capitalizzazione della Borsa di Wall Street, rimaniamo ancora assai lontani dal valore reale delle aziende high-tech, le cui azioni sono state gonfiate dai loro stessi fondi al fine di mantenere alti i dividendi dei loro "risparmiatori" (i democratici avevano addirittura previsto di sostituire il welfare con "la finanza per tutti", così come in precedenza avevano parlato della "casa per tutti gli americani"). Ora, il divertimento volge al termine. La bolla ha raggiunto il proprio limite, e i valori scendono, con il rischio reale di un collasso. Se a questo aggiungiamo l'incertezza che le politiche di Trump – che rappresentano finanze diverse da quelle dei fondi di investimento – introducono in un sistema che erano riuscite a stabilizzare con l'aiuto dei democratici, capiamo la paura dei "mercati". Il capitalismo occidentale ha bisogno di un'altra bolla, poiché non conosce altro se non la riproduzione della solita stessa vecchia bolla (il tentativo trumpiano di ricostruire l'industria manifatturiera negli Stati Uniti, è destinato a fallire).

L'identità perfetta tra "produzione" e distruzione
L'Europa, che spende già più del 60% di quanto spenda la Russia per gli armamenti (la NATO rappresenta il 55% della spesa militare mondiale; la Russia il 5%), ora ha deciso di fare un importante piano di investimenti, da 800 miliardi di euro, per continuare ad aumentare la spesa militare. La guerra e l'Europa – dove le reti politiche ed economiche, che sono centri di potere legati alla strategia rappresentata da Biden, sconfitto alle ultime presidenziali, sono ancora attive – rappresentano l'occasione per poter costruire una bolla basata sugli armamenti, compensando in tal modo le crescenti difficoltà dei "mercati" statunitensi. Da dicembre, le azioni delle società di armamenti sono state oggetto di speculazione, aumentando incessantemente e fungendo da rifugio sicuro per quei capitali che vedono come troppo rischiosa la situazione degli Stati Uniti. Al centro di questa operazione ci sono i fondi di investimento, i quali sono anche tra i principali azionisti delle grandi aziende di armamenti. Detengono partecipazioni significative in Boeing, Lockheed Martin e RTX, influenzando la gestione e le strategie di queste società. Anche in Europa sono presenti nel complesso militare-industriale: Rheinmetall, l'azienda tedesca che produce carri armati Leopard, e che ha visto il prezzo delle sue azioni salire del 100% negli ultimi mesi, ha come principali azionisti BlackRock, Société Générale, Vanguard, ecc. Rheinmetall, il più grande produttore di munizioni in Europa, ha superato il più grande produttore di automobili del continente (per capitalizzazione), la Volkswagen: l'ultimo segnale del crescente interesse degli investitori per i titoli legati alla difesa. L'Unione Europea vuole catturare e incanalare i risparmi continentali indirizzandoli sugli armamenti, con conseguenze catastrofiche per il proletariato, e con una maggiore divisione dell'Unione Europea. La corsa agli armamenti non funzionerà come "keynesismo di guerra"; questo perché gli investimenti in armi avvengono in un'economia finanziarizzata, e non più industriale. Costruito con denaro pubblico, andrà a beneficio di una piccola minoranza di privati, peggiorando le condizioni della stragrande maggioranza della popolazione. La bolla delle armi, può produrre solo gli stessi effetti della bolla delle aziende high-tech americane. Dopo il 2008, le somme di denaro raccolte per gli investimenti nella bolla dell'alta tecnologia, non sono mai state "versate" al proletariato statunitense. Al contrario, hanno prodotto una crescente deindustrializzazione, insieme a posti di lavoro precari e poco qualificati, bassi salari, povertà dilagante, e la distruzione dello scarso Welfare ereditato dal New Deal. Insieme alla conseguente privatizzazione di tutti i servizi. Ed è questo ciò che la bolla finanziaria europea produrrà senza dubbio anche in Europa. La finanziarizzazione porterà non solo alla completa distruzione dello stato sociale e alla privatizzazione radicale dei servizi, ma anche a un'ulteriore frammentazione politica di ciò che resta dell'Unione europea. I debiti, contratti separatamente da ogni Stato, dovranno essere ripagati, e ci saranno enormi differenze tra i diversi Stati europei per quanto riguarda la loro capacità di onorare i debiti contratti. Il vero pericolo non sono i russi, ma i tedeschi, con il loro riarmo di 500 miliardi di euro, oltre ad altri 500 miliardi per le infrastrutture; un finanziamento decisivo nella costruzione della bolla. L'ultima volta che si sono armati, sono stati combinati dei veri e propri disastri mondiali (25 milioni di morti nella sola Russia sovietica, la soluzione finale, ecc.), e da ciò è nata la famosa dichiarazione di François Mauriac: «Mi piace così tanto la Germania, che sono contento che ce ne siano due». In attesa degli sviluppi del nazionalismo e dell'estrema destra, già al 21%, che inevitabilmente produrranno, a quanto pare abbiamo il "Deutschland ist zurück" [La Germania è tornata], e la Germania imporrà la sua consueta egemonia imperialista sugli altri paesi europei. I tedeschi abbandoneranno rapidamente il credo ordoliberale – che non aveva alcuna base economica, ma solo politica – e abbracceranno radicalmente la finanziarizzazione anglo-americana, con il solito obiettivo: dominare e sfruttare l'Europa. Il Financial Times parla di una decisione presa da Friedrich Merz, l'uomo di BlackRock, e da Jörg Kukies, il ministro del Tesoro, uomo di Goldman Sachs, con l'appoggio dei partiti di "sinistra" SPD e Die Linke i quali, così come i loro predecessori nel 1914, si assumeranno ancora una volta la responsabilità dell'imminente carneficina. Di tutto questo - che per ora è ancora solo un progetto, soltanto i finanziamenti tedeschi sembrano avere una certa credibilità. Per quanto riguarda gli altri Stati, vedremo chi avrà il coraggio di tagliare le pensioni, la sanità, l'istruzione, ecc. e in modo ancora più radicale, a causa di una minaccia inventata. La Germania è l'unico paese europeo in grado di effettuare la conversione da industria civile a militare. La sua egemonia sull'Europa non sarà più solo economica. Se il precedente imperialismo interno tedesco si basava sull'austerità, sul mercantilismo delle esportazioni, sul congelamento dei salari e sulla distruzione dello Stato sociale, questo si baserà invece sulla gestione di un'economia di guerra europea gerarchizzata da dei tassi di interesse differenziali, da pagare per ripagare il debito contratto. I paesi che sono già fortemente indebitati (Italia, Francia, ecc.) dovranno trovare qualcuno che compri i loro titoli emessi, in modo da poter così pagare i loro debiti in un "mercato" europeo sempre più competitivo. Gli investitori saranno più propensi ad acquistare obbligazioni tedesche, vale a dire, obbligazioni emesse da società di armamenti – bersaglio di una crescente speculazione – e titoli di Stato europei, i quali sono senza dubbio più sicuri e più redditizi di quelli dei paesi sovra-indebitati. La famosa crema spalmabile continuerà pertanto a svolgere il suo ruolo, come ha fatto nel 2011. I miliardi necessari per pagare i mercati, non saranno disponibili per lo stato sociale. E così l'obiettivo strategico di tutti i governi e di tutte le oligarchie di questi ultimi cinquant'anni – ovvero, la distruzione della spesa sociale per la riproduzione del proletariato, e la sua privatizzazione – verrà raggiunto. Ventisette egoismi nazionali si combatteranno senza nulla in palio, dal momento che la storia, che «siamo gli unici a sapere di che cosa si tratta», ci ha messo all'angolo, rendendoci inutili e irrilevanti, dopo secoli di colonialismo, guerre e genocidi. La corsa agli armamenti è accompagnata da un'insistente giustificazione che recita che «siamo in guerra» contro tutto il mondo (Russia, Cina, Corea del Nord, Iran, BRICS), la quale non può essere trascurata, poiché corre il rischio di materializzarsi, poiché questa delirante quantità di armi deve ancora essere "consumata".

La lezione di Rosa Luxemburg, Kalecki, Baran e Sweezy
Solo gli ingenui possono essere sorpresi da quello che sta accadendo. Tutto si ripete, solo che ora lo fa all'interno di un capitalismo finanziario; e non più industriale, com'era nel XX secolo. La guerra e gli armamenti sono stati al centro dell'economia e della politica fin da quando il capitalismo è diventato imperialista. E ora sono anche al centro del processo di riproduzione del capitale e del proletariato, in feroce competizione tra loro Ricostruiamo rapidamente il quadro teorico fornito da Rosa Luxemburg, Kalecki, Baran e Sweezy – un quadro ancora saldamente ancorato (in contrasto con le inutili teorie critiche contemporanee) alle categorie dell'imperialismo, del monopolio e della guerra – e che ci offre uno specchio per guardare la situazione contemporanea. Partiamo dalla crisi del 1929, che affondava le sue radici nella Prima Guerra Mondiale e nel tentativo di uscirne attivando la spesa pubblica per mezzo dell'intervento statale. Secondo Baran e Sweezy (d'ora in poi, B&S), negli anni '30, il problema con la spesa pubblica era quello del suo volume, il quale non era in grado di neutralizzare le forze depressive dell'economia privata. Visto come un'operazione di salvataggio per l'economia americana nel suo complesso, il New Deal è stato pertanto un clamoroso fallimento. Persino Galbraith - il profeta della prosperità senza acquisti di guerra - riconobbe che negli anni '30 e '40 la grande crisi non era mai finita. Se ne uscirà solo con la seconda guerra mondiale: «Presto venne la guerra, e con la guerra la salvezza (...) la spesa militare ha fatto ciò che la spesa sociale non era stata in grado di fare», mentre la spesa pubblica è balzata da 17,5 miliardi di dollari a 103,1 miliardi di dollari. Le B&S dimostrano che la spesa pubblica non ha prodotto gli stessi risultati della spesa militare, poiché essa è stata vincolata da un problema politico che continua ancora a essere il nostro. E questo perché il New Deal e le sue spese non hanno raggiunto un obiettivo che era «a portata di mano, come la guerra ha dimostrato in seguito»? «Perché, sulla natura e sulla composizione della spesa pubblica, cioè sulla riproduzione del sistema e del proletariato, si era scatenata la lotta di classe. Data la struttura di potere del capitalismo monopolistico degli Stati Uniti, l'aumento della spesa civile aveva quasi raggiunto i propri limiti estremi. Le forze che si opponevano a un'ulteriore espansione erano troppo potenti per essere sconfitte». La spesa sociale ha fatto concorrenza o danneggiato le corporazioni e le oligarchie, strappando loro il potere economico e politico. «Poiché gli interessi privati controllano il potere politico, i limiti della spesa pubblica sono fissati rigidamente, senza preoccuparsi dei bisogni sociali, per quanto vergognosamente evidenti possano essere». E questi limiti valevano anche per la sanità e per l'istruzione, che all'epoca, a differenza di oggi, non competevano direttamente con gli interessi privati delle oligarchie. La corsa agli armamenti consentì di aumentare la spesa pubblica dello Stato, senza che questa si trasformi in un aumento dei salari e dei consumi del proletariato. Come si può spendere il denaro pubblico, per evitare la depressione economica provocata dal monopolio, senza allo stesso tempo rafforzare il proletariato? «Con gli armamenti, con gli armamenti, e con gli armamenti sempre più». Michael Kalecki, lavorando sullo stesso periodo, ma nella Germania nazista, riesce a chiarire altri aspetti del problema. Contro ogni economicismo che sempre minaccia la comprensione del capitalismo – anche da parte delle teorie critiche marxiste – egli evidenzia la natura politica del ciclo del capitale: «La disciplina nelle fabbriche e la stabilità politica, per i capitalisti sono più importanti dei profitti immediati». Il ciclo politico del capitale, che ora può essere garantito solo dall'intervento statale, deve ricorrere alla spesa per gli armamenti e al fascismo. Per Kalecki, il problema politico si manifesta anche nella «direzione e negli scopi della spesa pubblica». L'avversione al «sussidio al consumo di massa», viene motivata dalla distruzione che esso provoca «nelle fondamenta stesse dell'etica capitalistica: "ti guadagnerai il pane con il sudore della tua fronte" (a meno che tu non viva con le rendite del capitale)». Come evitare che la spesa pubblica si trasformi in un aumento dell'occupazione, dei consumi e dei salari, e quindi divenga forza politica del proletariato? Per le oligarchie, l'inconveniente si supera con il fascismo, in modo che così la macchina statale passi sotto il controllo del grande capitale e della direzione fascista, per mezzo del«la concentrazione della spesa statale negli armamenti», mentre «la disciplina di fabbrica e la stabilità politica vengono garantite per mezzo dello scioglimento dei sindacati e grazie ai campi di concentramento. La pressione politica sostituisce la pressione economica esercitata dalla disoccupazione». Da qui l'immenso successo dei nazisti tra la maggior parte dei liberali britannici e americani. La guerra e le spese per gli armamenti, occupano un posto centrale nella politica americana, anche dopo la fine della seconda guerra mondiale, questo perché è inconcepibile una struttura politica senza forza armata, cioè senza il monopolio del suo esercizio. Il volume dell'apparato militare di una nazione dipende dalla sua posizione nella gerarchia mondiale dello sfruttamento. «Le nazioni più importanti ne avranno sempre più bisogno, e l'entità del loro bisogno (di forza armata) varierà a seconda che ci sia o meno un'intensa lotta tra di loro per avere il primo posto». In tal modo, al centro dell'imperialismo, la spesa militare continuerà a crescere: «Naturalmente, la maggior parte dell'espansione della spesa pubblica si è verificata nel settore militare, il quale è passato da meno dell'1% a più del 10% del PIL; rappresentando così, dal 1920, circa i due terzi dell'aumento totale della spesa pubblica. Questo massiccio assorbimento del surplus nei preparativi militari, è stato il fatto centrale della storia americana del dopoguerra». Kalecki osserva come, nel 1966, «più della metà della crescita del reddito nazionale, si tradusse in un aumento delle spese militari». Ora, nel dopoguerra, il capitalismo non può più contare sul fascismo per controllare la spesa sociale. L'economista polacco, "discepolo" di Rosa Luxemburg, osserva: «Una delle funzioni fondamentali dell'hitlerismo era stata quella di superare l'avversione del grande capitale per la politica anticiclica su larga scala. La grande borghesia aveva acconsentito all'abbandono del laissez-faire e all'aumento radicale del ruolo dello Stato nell'economia nazionale, ma a condizione che l'apparato statale fosse sotto il controllo diretto della sua alleanza con la direzione fascista»; e che la destinazione e il contenuto della spesa pubblica venissero determinati dagli armamenti. Nei Gloriosi Trenta, senza il fascismo a garantire la direzione della spesa pubblica, gli Stati e i capitalisti furono costretti a un compromesso politico. I rapporti di potere determinati dal secolo delle rivoluzioni, costringono lo Stato e i capitalisti a fare delle concessioni che, in ogni caso, rimangono compatibili con dei profitti che raggiungono dei tassi di crescita mai visti prima. Ma anche questo impegno è eccessivo perché, nonostante i grandi profitti, «in questa situazione, gli operai diventano "recalcitranti", mentre i "capitani d'industria" sono sempre più ansiosi di "dare loro una lezione".» Così, la controrivoluzione, scatenata a partire dalla fine degli anni '60, avrà come asse centrale la distruzione della spesa sociale, insieme alla feroce determinazione di indirizzare la spesa pubblica esclusivamente verso i soli interessi delle oligarchie. Il problema - a partire dalla Repubblica di Weimar - non è mai stato quello di un generico intervento dello Stato nell'economia, ma piuttosto il fatto che lo Stato era permeato dalla lotta di classe, e pertanto costretto a cedere alle richieste delle lotte operaie e proletarie. Così, nei tempi "pacifici" della Guerra Fredda - senza l'aiuto del fascismo - ecco che l'esplosione delle spese militari ha bisogno di una legittimazione, garantita da una propaganda capace di evocare continuamente la minaccia di una guerra imminente, ossia, di un nemico alle porte disposto a distruggere i valori occidentali: «I creatori (non ufficiali) e i funzionari dell'opinione pubblica hanno la risposta pronta: gli Stati Uniti devono difendere il mondo libero dalla minaccia dell'aggressione sovietica (o cinese)». Kalecki, più o meno in quello stesso periodo, chiarisce: «I giornali, il cinema, la radio e la televisione, che operano sotto l'egida della classe dominante, creano così un'atmosfera che favorisce la militarizzazione dell'economia». La spesa per gli armamenti non ha solo una funzione economica, ma anche quella di produrre delle soggettività sottomesse. La guerra, esaltando la subordinazione e il comando, «contribuisce a creare una mentalità conservatrice»: «Mentre la massiccia spesa pubblica per l'istruzione e per il welfare tendono a minare la posizione privilegiata dell'oligarchia, la spesa militare fa invece il contrario. La militarizzazione favorisce tutte le forze reazionarie (...) e si determina un cieco rispetto per l'autorità; viene insegnato e imposto un comportamento di conformità e sottomissione; e l'opinione contraria è considerata un atto antipatriottico, o direttamente un tradimento». Il capitalismo produce un capitalista che - proprio a causa della forma politica del suo ciclo - è un seminatore di morte e distruzione, anziché un promotore del progresso. Richard B. Russell, un senatore conservatore degli Stati Uniti meridionali negli anni '60 citato da B&S, ci dice: «C'è qualcosa nei preparativi per la distruzione che porta gli uomini a spendere denaro con più noncuranza di quanto sarebbe se lo si facesse per scopi costruttivi. Non so perché questo accada; ma durante i trent'anni in cui sono stato al Senato, più o meno, ho capito che quando si acquistano armi per uccidere, distruggere, cancellare città dalla faccia della terra ed eliminare i grandi sistemi di trasporto, c'è qualcosa che fa sì che gli uomini non calcolino le spese con la medesima cura di quando si tratta di pensare a un alloggio dignitoso e all'assistenza sanitaria per gli esseri umani». La lotta di classe, che permea questa realtà, ha dato origine a una radicale opposizione tra la riproduzione della vita e la riproduzione della sua distruzione, la quale poi si è solo approfondita a partire dagli anni '30. Alla fine della lezione, possiamo dire che non c'è passaggio dal Welfare alla Guerra, poiché la spesa pubblica è sempre stata, simultaneamente, civile e militare. James O'Connor ha giustamente parlato di Warfare-Welfar.

Come funziona il capitalismo?
Nell'analisi del capitale e dello Stato, la guerra e gli armamenti - che sono stati praticamente esclusi da tutte le teorie critiche del capitalismo - funzionano come discriminanti. È molto difficile definire il capitalismo in quanto "modo di produzione", come ha fatto Marx, e questo perché l'economia, la guerra, la politica, lo Stato e la tecnologia sono tutti elementi strettamente intrecciati e inseparabili. La "critica dell'economia" non è sufficiente a produrre una teoria rivoluzionaria. Già con l'avvento dell'imperialismo, c'è stato un cambiamento radicale nel funzionamento del capitalismo e dello Stato; chiaramente evidenziato da Rosa Luxemburg, per la quale l'accumulazione ha due aspetti. Il primo «si riferisce alla produzione di plusvalore – in fabbrica, in miniera, nell'azienda agricola – e alla circolazione delle merci sul mercato. Se considerata da questo punto di vista, l'accumulazione diventa così un processo economico, la cui fase più importante costituisce una transazione tra il capitalista e il salariato. Il secondo aspetto, ha invece come teatro il mondo intero: una dimensione mondiale irriducibile al concetto di "mercato" e alle sue leggi economiche. «Qui i metodi impiegati sono la politica coloniale, il sistema creditizio internazionale, la politica delle sfere di interesse, la guerra. Mentre, la violenza, l'inganno, l'oppressione, la depredazione si sviluppano apertamente, senza maschere, ed è sempre più difficile riconoscere le rigide leggi del processo economico vedendole nell'intreccio tra violenza economica e brutalità politica». La guerra, non è una continuazione della politica, ma coesiste sempre insieme a essa, come dimostra il funzionamento del mercato mondiale. E dove la guerra, la frode e la depredazione coesistono con l'economia, vediamo che la legge del valore non ha mai funzionato davvero. Il mercato mondiale ha un aspetto assai diverso da quello delineato da Marx. Le sue considerazioni non sembrano più valide, o meglio, dovrebbero piuttosto  essere chiarite: solo nel mercato mondiale il denaro e il lavoro sarebbero diventati adeguati al loro stesso concetto, rendendo la loro astrazione e la loro universalità davvero una realtà. Al contrario, ciò che possiamo vedere è invece che il Denaro - la forma più astratta e più universale di Capitale - corrisponde sempre alla moneta di uno Stato. Il dollaro è la valuta degli Stati Uniti, e regna solo in quanto tale. L'astrazione del denaro e la sua universalità (e i suoi automatismi) vengono appropriati a partire da una "forza soggettiva" e sono gestiti secondo una strategia che non è contenuta nel denaro. Anche la finanza, come la tecnologia, sembra essere oggetto di appropriazione da parte di forze soggettive "nazionali", le quali sono molto poco universali. Sul mercato mondiale, neppure il lavoro astratto trionfa in quanto tale, trovando al suo posto altri lavori radicalmente diversi (lavoro servile, lavoro schiavo, ecc.) ed essendo oggetto di sue strategie. L'azione di Trump - caduto il velo ipocrita del capitalismo democratico - ci svela il segreto dell'economia: essa può funzionare solo sulla base di una divisione internazionale della produzione e della riproduzione, definita e imposta politicamente, vale a dire, attraverso l'uso della forza; cosa che implica anche la guerra. La volontà di sfruttare e dominare, gestendo al contempo i rapporti politici, economici e militari, costruisce una totalità che non può mai chiudersi su sé stessa, rimanendo sempre aperta, divisa da conflitti, guerre e depredazioni. In questa totalità divisa, ecco che tutti i rapporti di potere convergono, e vengono governati. Trump interviene nell'uso delle parole - ma anche nelle teorie di genere - mentre simultaneamente vuole imporre un nuovo posizionamento globale, politico ed economico degli Stati Uniti. Dal micro al macro, un'azione politica che i movimenti contemporanei sono ben lontani anche solo dal concepire. Così, la costruzione della bolla finanziaria - un processo che oggi possiamo seguire passo dopo passo - avviene allo stesso modo. Gli attori che intervengono nella sua produzione sono molteplici: l'Unione Europea, gli Stati che hanno bisogno di indebitarsi, la Banca Europea, la Banca Europea per gli Investimenti, i partiti politici, i media e l'opinione pubblica, e i grandi fondi di investimento (tutti americani) che organizzano il trasferimento di capitali da una borsa all'altra, e infine le grandi imprese. Solo dopo che lo scontro/cooperazione tra questi centri di potere avrà dato il suo verdetto, la bolla economica e i suoi automatismi potranno funzionare. C'è un'intera ideologia riguardo il funzionamento automatico che va sfatata. Il "pilota automatico", soprattutto a livello finanziario, esiste e funziona solo dopo che esso è stato istituito politicamente. Non esisteva nei Trenta Gloriosi perché allora era stato politicamente deciso così. Ha operato dalla fine degli anni '70, inseguito a un'esplicita volontà politica. Questa molteplicità di attori che si agitano da mesi, viene tenuta insieme da una strategia. Esiste, quindi, un elemento soggettivo che interviene in modo fondamentale. Anzi, in realtà, due. Da un punto di vista capitalistico, c'è una lotta feroce tra il "fattore soggettivo" Trump e il "fattore soggettivo" di quelle élite che sono state sconfitte alle elezioni presidenziali, ma che però hanno ancora una forte presenza nei centri di potere, negli Stati Uniti e in Europa. Ma affinché il capitalismo funzioni, dobbiamo anche prendere in considerazione un fattore soggettivo proletario. Quest'ultimo gioca un ruolo decisivo, perché delle due l'una, o diventerà il portatore passivo del nuovo processo di produzione/riproduzione del Capitale, oppure tenderà a rifiutarlo e a distruggerlo. Verificata l'incapacità del proletariato contemporaneo - il più debole, il più disorientato, il meno autonomo e indipendente di tutta la storia del capitalismo, la prima opzione sembra quella più probabile. Ma se non riuscirà ad opporre alle costanti innovazioni strategiche del nemico,  la propria strategia, capace di rinnovarsi continuamente, allora cadremo in un'asimmetria dei rapporti di forza, la quale ci riporterà a prima della Rivoluzione francese, e a un nuovo e già visto ancien régime.

- Maurizio Lazzarato - Pubblicato il 05/06/2025 - fonte: Outras Palavras -

venerdì 6 giugno 2025

«Come i Nazisti» ?!!???

Cosa significa "genocidio"
- di Matthew Bolton - Giugno 4, 2025 -

Nel febbraio del 2024, Ash Sarkar (una personalità dei social media britannici ha intervistato Bernie Sanders, senatore degli Stati Uniti che per molti anni è stato un pilastro della sinistra. In un estratto di quattro minuti, pubblicato sul suo account "X", il video è diventato rapidamente virale, registrando più di otto milioni di visualizzazioni. «Ho chiesto per ben tre volte a Bernie Sanders se pensasse che l'attacco di Israele a Gaza costituisse un genocidio» - ha scritto. «E lui così mi ha risposto» [*1]. La prima volta che gli è stato chiesto, Sanders ha risposto che «quello che Israele sta facendo è assolutamente vergognoso, orribile» ed ha aggiunto che lui sta facendo «tutto ciò che è in suo potere per fermarlo». Ha poi aggiunto di aver «guidato l'opposizione», al Congresso, contro un disegno di legge che avrebbe inviato 14 miliardi di dollari in aiuti statunitensi a Israele, e questo perché non voleva «vedere gli Stati Uniti complici di ciò che Netanyahu e i suoi amici di destra stanno attualmente infliggendo al popolo palestinese». Sanders chiede un «cessate il fuoco umanitario» e dei negoziati che portino a «trovare... una soluzione a lungo termine». Sarkar, insoddisfatta, gli pone nuovamente la domanda se si tratti o meno di un genocidio. «Si può discutere sulle definizioni», risponde Sanders, «ma ciò che importa, è prevenire ulteriori morti, e far arrivare gli aiuti a Gaza». Sarkar fa un ultimo tentativo, chiedendo: genocidio o no? «Possiamo parlarne», risponde Sanders, «ma, in termini concreti, che cosa significa?» E ha ripetuto che quello che sta cercando di fare, è fermare gli aiuti americani a Israele in modo che «il signor Netanyahu e i suoi amici di destra, si rendano conto che non è una buona idea continuare nella loro guerra di distruzione». Le reazioni sono state particolarmente virulente: Sanders è stato accusato di essere un «codardo senza spina dorsale», persino un "truffatore"! Lo dimostrerebbe il modo in cui egli "mena il can per l'aia". Alcuni vanno persino oltre. Sanders – che è ebreo e che ha trascorso in un kibbutz, simile a quelli attaccati il 7 ottobre, parte della sua giovinezza  – sarebbe solo «un sionista, e il che spiega tutto ciò che egli ha fatto e detto da allora». Una settimana dopo, sempre su “X” è stato pubblicato un altro video, che mostrava Sanders mentre parlava all'Università di Dublino. Le sue opinioni sul termine "genocidio" divenivano così un po' più chiare. «Quando si arriva questo termine [genocidio]», egli dice, «mi sento un po' a disagio... E io non so, vedete, non so cosa sia il "genocidio". Bisogna stare attenti quando usiamo questo termine» [*2]. A sentire queste parole, coloro che hanno girato il video sono esplosi per la rabbia e hanno gridato a Sanders: «Questo è un genocidio... Bernie, tu stesso hai finanziato il sionismo, hai finanziato lo Stato dei coloni israeliani... Bugiardo, bugiardo, negazionista... Sei un assassino di bambini, sei un negazionista dell'Olocausto... I nativi americani sono stati anch'essi vittime di genocidio [da parte degli Stati Uniti], e non ti ho mai sentito parlare di genocidio». Da quel momento in poi, Sanders ha dovuto affrontare proteste simili nel corso delle sue apparizioni pubbliche.

   Il trattamento riservato a Sanders - un uomo che ha riportato, quasi da solo, l'idea di socialismo democratico nell'agenda politica degli Stati Uniti - riassume perfettamente quale sia il ruolo di totem che, nella opposizione alla guerra di Israele contro Gaza, ha assunto il concetto di “genocidio”. Si tratta di un politico di spicco che rifiuta in toto questa guerra e che sta agendo concretamente contro di essa ai più alti livelli del governo americano. Eppure, poiché egli si rifiuta di usare un termine particolare per descrivere quale sia la violenza che egli cerca di prevenire, viene ridicolizzato, diffamato e scomunicato. E in questo, Sanders non è certo l'unico. L'opposizione a una guerra, la cui legittimità iniziale è stata progressivamente minata da uno svolgimento divenuto indifendibile, viene in tal modo frammentata e indebolita, e forse in maniera irreversibile. Questo serve a porre la domanda: se la priorità del movimento contro la guerra è quella di prevenire ulteriori morti e distruzioni a Gaza – e l'urgenza di una tale richiesta, soprattutto dopo la ripresa dei bombardamenti israeliani e il blocco degli aiuti che c'è stato dal marzo 2025, non può più essere messa in discussione – perché allora le è stato dato questo nome? Perché sacrificare l'unità del movimento sull'altare del "genocidio"? Da un lato, l'uso immediato del termine “genocidio” - le prime accuse sono state fatte mentre ancora si raccoglievano i corpi dai campi Nova e dai kibbutzim - è solo un'ulteriore prova di come negli ultimi decenni questa parola abbia subito un'inflazione semantica generale. Si va dalle accuse di genocidio rivolte a quei governi che hanno tardato a imporre misure di contenimento contro il Covid-19, alle formulazioni speciose riferite a nozioni di “genocidio dei trans” o di “genocidio dei bianchi”: la potenza emotiva veicolata da questo concetto lo ha reso un'arma retorica onnipresente e sfiancante se vista in un'economia dell'attenzione alimentata dai social network. Per quel che riguarda Israele, come sempre, la questione va oltre i semplici eccessi online. Per alcuni osservatori, l'attrattiva, che in questo contesto ha il concetto di "genocidio", risiede proprio nella possibilità di riuscire a invertire i ruoli di vittima e di carnefice, se non addirittura di rivolgere la memoria dell'Olocausto contro Israele. Accusare Israele – uno Stato nato dalle ceneri di una popolazione ebraica europea spazzata via – di genocidio, vale a dire, di fare agli altri ciò che gli è stato fatto in passato, pone lo Stato ebraico sullo stesso piano del regime nazista. Secondo le parole di Philip Spencer, «c'è sempre stato un fastidioso senso di colpa per quello che è stato fatto agli ebrei. L'accusa di genocidio cancella una volta per tutte questa colpa. Ora, chiunque può dire che gli ebrei non meritano più alcuna simpatia, perché ora sono altrettanto cattivi, o peggiori dei nazisti» [*3]. Simultaneamente, per Spencer, se si accusa erroneamente Israele di genocidio, a causa della sua risposta alle atrocità di Hamas, anch'esse caratterizzate a loro volta da un intento genocida, ecco che «il concetto e l'accusa di genocidio si capovolgono». L'entusiasmo, con cui così tante persone hanno colto l'opportunità per accusare Israele di genocidio all'indomani del 7 ottobre, ha di certo qualcosa a che fare con il brivido trasgressivo di rovesciare - e pertanto, finalmente, cancellare - l'Olocausto. Non è un caso che, per Pankaj Mishra – in una sua conferenza, pronunciata curiosamente sotto forma di sermone dal pulpito della chiesa di San Giacomo, a Clerkenwell – sia stata la guerra di Israele a «far saltare in aria l'edificio delle norme mondiali», costruito dopo "l'Olocausto", anziché l'invasione dell'Ucraina da parte di Putin, o l'uso flagrante di armi chimiche da parte di Bashar al-Assad, oppure l'invasione dell'Iraq da parte degli Stati Uniti [*4]. Non è un caso che i termini “campo di concentramento”, “Auschwitz”, “ghetto di Varsavia”, “genocidio” e “Olocausto” o “Shoah” siano stati a lungo utilizzati in modo ostentato per condannare il modo in cui Israele sta trattando Gaza e il popolo palestinese. Il "disagio" di Sanders, per l'utilizzo del termine da parte del movimento contro la guerra, deriva senza dubbio dalla sua percezione di questa dinamica. Il fatto che anche Sarkar sia consapevole di quale sia il peso di questa parola per Sanders, conferisce all'intervista il carattere sgradevole di voler essere un tentativo di estorcere una confessione forzata.

   E tuttavia, limitare il significato dell'accusa di genocidio, rendendolo solo un rovesciamento dell'Olocausto, significa perdere di vista un aspetto importante del ruolo che oggi questo concetto gioca nei dibattiti contemporanei su Israele. Affermare che Israele starebbe commettendo un genocidio «come i nazisti», è un argomentazione che viene sostenuta sia a livello di azione che di intento. Malgrado le sue grossolane esagerazioni, e le fantasie che trasmette, rimane fondamentalmente un'affermazione empirica, la quale può essere dimostrata o confutata a partire da prove e argomenti ragionati. Significa che ci sono prove che Israele stia agendo in un modo che dovrebbe essere considerato un crimine di genocidio. Questo reato ha una sua definizione giuridica («atti commessi con l'intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale»), ed ha un apparato giuridico istituito per perseguirlo. In genere, un'accusa di genocidio come questa è diretta nei confronti di autori particolari: i leader politici, la fazione, il governo o il "regime" che ne sono ritenuti responsabili. In tal modo - con la possibile eccezione del movimento anti-Deutsch, di sinistra radicale [*5] - l'affermazione secondo cui i nazisti perpetrarono il genocidio contro gli ebrei d'Europa, non porta necessariamente ad argomentare che la Germania non dovrebbe esistere in quanto Stato. Piuttosto, lo Stato tedesco viene presentato come se esso fosse stato "dirottato" dall'estrema destra, la quale ha ottenuto il sostegno della popolazione combinando terrore e ideologia, per poi usare l'apparato statale per commettere un genocidio. Pertanto, la sconfitta del regime nazista fu così seguita da un programma di "denazificazione", volto a eliminare ciò che rimaneva dello Stato tedesco, e a reintegrarlo nell'ordine mondiale democratico. Questa storia è stata naturalmente complicata dal fatto che la Germania sia rimasta divisa in due per molto tempo, e che il "successo" della denazificazione è stato - nella migliore delle ipotesi - di breve durata. Ma rimane il fatto che l'accusa di genocidio nazista non era diretta allo Stato tedesco in sé. Nella sua intervista con Sarkar, Sanders cerca ripetutamente di rendere responsabile «il signor Netanyahu e i suoi amici di destra» della "vergognosa" condotta nella guerra. In questo, Sanders sta seguendo la medesima logica politica che, dopo la guerra, aveva portato alla denazificazione. L'estrema destra israeliana è responsabile della carneficina a Gaza, e pertanto dovrebbe essere privata dei fondi, messa sotto accusa e sostituita da un nuovo governo, il quale negozierebbe un accordo con i palestinesi e reintegrerebbe Israele nell'ordine democratico mondiale. Lo stesso argomento viene sostenuto anche dalla sinistra israeliana: In un contesto narrativo per lo più esente da antisemitismo, e dalla minaccia di un ribaltamento della Shoah, alcuni si spingono addirittura ad accusare di genocidio «Netanyahu e i suoi amici». E di certo oggi non esiste alcuna ragione a priori per cui i leader politici e militari di Israele non possano, in teoria, venire legittimamente accusati di genocidio: il fatto che i loro antenati abbiano subito essi stessi violenze genocide può conferire una dimensione speciale alle accuse che essi rivolgono ad Hamas, ma questo non li immunizza in alcun modo dalla possibilità di commettere, a loro volta, violenze simili contro altri. Inoltre, è ampiamente dimostrato che dopo il 7 ottobre alcuni politici israeliani si sono ripetutamente impegnati nell'incitamento al genocidio, per quanto non sia ancora stato dimostrato un legame diretto tra la retorica di estrema destra e le azioni sul campo [*6]. Ma per Sarkar e i suoi seguaci, i tentativi di politicizzare la guerra di Gaza – concentrandosi sulle azioni di individui o di specifiche correnti politiche – sono del tutto inadeguati, se non addirittura pericolosi. La politicizzazione, non solo chiama in causa le azioni e l'ideologia di Hamas, complicando una semplicistica favola morale attribuendo responsabilità a entrambe le parti, ma oscura anche il fatto che le differenze politiche tra destra, sinistra e centro in Israele sono ben reali. Una volta riconosciute tali differenze, si rischia di dover rinunciare a quello che - e qui la diversità con il caso tedesco diventa evidente - è il cuore di questo modo di criticare la guerra di Israele: la messa in discussione dello Stato ebraico stesso, e non già del “regime” di Netanyahu. In altre parole, l'accusa di genocidio, che Sarkar richiede a Sanders di avallare, non è rivolta a un particolare governo o fazione politica israeliana, per le sue azioni. In realtà, non si tratta affatto di una questione di azione, ma di esistenza. Le basi teoriche di questa concezione del "genocidio" - in quanto stato di esistenza, piuttosto che come questione di azione - sono assai chiare negli slogan, cantati a Dublino, dai critici di Sanders: Israele è uno "Stato coloniale", il cui genocidio dei palestinesi è simile a quello dei nativi americani. Ciò che vediamo all'opera in questa concezione del "genocidio", non è tanto il discorso che riguarda il rovesciamento dell'Olocausto, quanto piuttosto quello del colonialismo.

   Come Adam Kirsch ha recentemente sottolineato, la nozione di genocidio è fondamentale ai fini della teoria del colonialismo di insediamento, il quale, a partire dalle sue origini moderne che si trovano nelle cosiddette "guerre storiche" australiane della metà degli anni 1990, ha finito per occupare un posto di rilievo in molte opere accademiche, e in movimenti politici [*7]. Secondo questa teoria, ciò che distingue le colonie come l'Australia, gli Stati Uniti e il Canada dal colonialismo "estrattivo" dell'India britannica, o dell'Algeria francese, è che in quest'ultima, per fornire manodopera, erano necessari dei "nativi". Così, nel primo caso, essi erano solo una seccatura e pertanto erano maturi per il genocidio. Per l'antropologo britannico-australiano Patrick Wolfe - uno dei padri fondatori della teoria del colonialismo di insediamento - praticamente, è una "logica di eliminazione" quella che si trova alla base di tutto ciò che una colonia di insediamento fa, dal momento iniziale della "invasione": pertanto, l'eliminazione dei "nativi" «è un principio organizzativo della società coloniale di insediamento, piuttosto che un evento una tantum (e obsoleto)»[8]. All'estremità più radicale del continuum colonialista della "eliminazione", troviamo lo sterminio fisico, l'ultima forma di trasgressione nella quale la distruzione del gruppo colonizzato raggiunge il suo culmine. Ma la cosa va ben oltre: per Lorenzo Veracini, caporedattore australiano della rivista "Settler Colonial Studies", la logica singolare di ciò che lui chiama "transfert" si estende, e va dalla "liquidazione" fisica e dallo «spostamento dei corpi... attraverso i confini» (cioè la pulizia etnica) fino al «trasferimento per assimilazione» – il quale consiste nell'offrire la cittadinanza ai "nativi" – e persino fino al «trasferimento diplomatico», vale a dire la creazione di «entità politiche sovrane o semi-sovrane» controllate in modo indipendente dagli stessi  "nativi" [*9]. Una volta che si afferra questo concetto radicalmente ampliato di "eliminazione" o di  "trasferimento", ivi compresa l'equivalenza che sembra stabilirsi tra l'annientamento fisico, la cittadinanza e la creazione di "entità politiche sovrane", diventa allora chiaro che, una volta assegnatogli lo statuto di "Stato colonizzatore", nulla di ciò che lo Stato interessato intraprende, in modo esplicito o implicito, potrà più invalidare un tale stato. Come dice Kirsch, «l'ideologia del colonialismo di insediamento propone un nuovo sillogismo: se la colonizzazione è un'invasione genocida, e se l'invasione è una struttura permanente, e non un evento completato, ecco che allora tutto ciò che – e forse persino chiunque – oggi sostiene una società coloniale di insediamento, diventa anche parte di una logica genocida». Il genocidio è così l'essenza stessa dello stato di insediamento: il genocidio è lo Stato, e lo Stato è il genocidio. Ne consegue, che non c'è nulla che si possa fare per salvare uno Stato colonialista. Mentre una "colonia estrattiva" (a volte chiamata anche "colonia di sfruttamento") gestita da una minoranza di coloni, può essere rovesciata da un movimento di liberazione nazionale anticolonialista; i resti di un popolo "indigeno" eliminato, invece non possono distruggere uno Stato di lunga data nel quale i "coloni" costituiscono la stragrande maggioranza della popolazione. A differenza dello Stato tedesco post-nazista, il quale potrebbe almeno tentare di fornire una qualche certa riparazione per i suoi atti di genocidio, l'unica riparazione che uno Stato coloniale può fornire, per il suo essere genocida, è la sua abolizione. L'opposizione al colonialismo di insediamento, e alla sua essenza genocida, è per definizione totale o inesistente. Detto in termini politici concreti, ciò significa invariabilmente che essa non esiste: come dice un famigerato tweet, ci possono essere solo «tendenze, saggi, articoli». Esiste, tuttavia, uno "Stato coloniale" laddove la prospettiva dell'abolizione sembra essere a portata di mano: Israele.

   Pur se la moderna teoria del colonialismo di insediamento, rimane una produzione tipicamente australiana, è tuttavia possibile risalire a un'origine sotterranea, nella quale Israele ci fornisce il modello per il colonialismo di insediamento. Il lavoro di alcuni teorici dell'OLP degli anni '60, come Fayez Sayegh, contiene di certo alcuni elementi di quella "logica dell'eliminazione", che sarebbe stata poi formalizzata da Wolfe e Veracini. In ogni caso, questi ultimi sono stati di certo pronti ad applicare il loro modello di «struttura e non-evento» a Israele, alla sua creazione e al suo rapporto con quelli che sono stati sempre più descritti come i "nativi" [*10]. In generale, l'uso del termine "indigeno" non è un criterio, vale a dire che non si tratta di affermare che i palestinesi sono presenti su questa terra da "tempo immemorabile", come per gli aborigeni dell'Australia o per i nativi americani (anche se questa dubbia affermazione, nel discorso popolare sta diventando sempre più comune). L'indigenità palestinese,viene qui piuttosto intesa in termini relazionali: i palestinesi sono indigeni a causa del fatto che gli israeliani sono coloni. Il concetto di "indigenità" costituisce pertanto il terzo elemento del sillogismo colonialista: non si può dire "colono" (israeliano) senza dire "indigenità" (palestinese); o "genocidio"! Tuttavia, il tentativo di trasporre la storia di Israele nel modello australiano non è stato privo di problemi. Come ha sottolineato Benjamin Wexler, Wolfe fu costretto a riconoscere una serie di caratteristiche distinte relative alla colonizzazione ebraica in Medio Oriente, che la differenziavano dal colonialismo europeo praticato altrove [*11]. Wolfe ammette che i coloni ebrei non avevano una "madrepatria" coloniale dalla quale erano emigrati; fino alle guerre arabo-ebraiche del 1947-1948, gli ebrei avevano acquistato legalmente la terra, anziché "invaderla" e prenderla con la forza; nel caso degli ebrei, in modo unico, un'identità nazionale indipendente aveva preceduto la colonizzazione, piuttosto che seguirla; da parte sua, la scelta del territorio non si basava su considerazioni economiche o politiche fortuite, ma si intrecciava profondamente con l'identità dei coloni: un'identità modellata da una narrazione storica risalente a una precedente espulsione dalla medesima terra in cui cercavano di (ri)stabilirsi. Inizialmente, la colonizzazione ebraica fu limitata dal desiderio che il colonizzatore aveva di sbarazzarsi di appezzamenti di terra contigui; piuttosto che il modello in continua espansione americano o australiano di colonizzazione "di confine". Era pertanto caratterizzata dalla proprietà collettiva della terra, piuttosto che dalla proprietà privata [*12]. Da parte sua, Veracini sostiene che Israele differisce dagli Stati Uniti e dall'Australia perché è un insediamento incompleto: l'accettazione della ripartizione, le guerre territoriali intermittenti, e l'esistenza di arabi israeliani (o cittadini palestinesi di Israele) significano che Israele non è stata in grado di «superare sè stessa», vale a dire, di cancellare le sue proprie origini.[*13] È la natura parziale del progetto coloniale israeliano a renderlo particolarmente vulnerabile agli attacchi. Tuttavia, anziché concludere che il numero e l'importanza di queste eccezioni segnalassero il fallimento del concetto di "colonialismo di insediamento", e della logica di eliminazione che lo accompagna, al fine di spiegare la storia di Israele, Wolfe è giunto alla conclusione opposta. Le varie eccezioni sono state evidenziate per dimostrare proprio che, nella sua stessa essenza, il sionismo è ancor più un progetto colonialista, ed è ancora più impegnato nell'eliminazione di quelli che si adattano perfettamente a un tale schema. Al centro di questa argomentazione, ci sono gli eventi della guerra del 1947-1949, che poi in seguito, nel discorso palestinese, sarebbero stati concettualizzati come la "Nakba" (o "catastrofe"). Per Wolfe, questi episodi di guerra, segnati dall'espulsione violenta e dalla fuga degli abitanti arabi in delle parti di quello che poi sarebbe diventato lo Stato di Israele, rivelarono quella fondamentale "logica" di eliminazione che è sempre stata l'essenza nascosta del sionismo. In realtà, Wolfe legge a ritroso la storia a partire dagli eventi della "Nakba". Egli sostiene che, malgrado tutta la storia precedente di limitate e non violente acquisizioni legali di terreni, e tutte le "rassicurazioni" in cui i governanti sionisti «affermavano la loro intenzione di vivere in armonia con la popolazione araba della Palestina», sono state solo le circostanze contingenti – la presenza degli inglesi, la relativa assenza di immigrati ebrei prima dell'Olocausto – ad aver impedito ai coloni sionisti di imbarcarsi in una campagna di appropriazione violenta delle terre. La Nakba «è stata la prima opportunità per il sionismo» di realizzare un progetto a lungo maturato, vale a dire «un esercizio più esclusivo della logica dell'eliminazione dei coloni», rispetto a qualsiasi cosa vista in Australia e Nord America. La Nakba è stata pertanto un "consolidamento" dell'essenza stessa del sionismo, «piuttosto che un punto di partenza». Questo argomento, in quanto tale, è stato ripreso dai teorici del colonialismo di insediamento, i quali hanno ricostruito gli eventi che hanno preceduto, accompagnato e seguito la guerra del 1947-1949 – fino ai giorni nostri – in modo tale da integrarli perfettamente nell'architettura concettuale prestabilita della teoria di Wolfe. La Nakba viene così spogliata del suo status di "evento" storico distinto - con le sue cause e conseguenze specifiche - e diventa una "struttura" genocida globale, che si dice abbia pertanto determinato la storia di Israele e della Palestina  fin dall'arrivo dei primi coloni ebrei (o rimpatriati). In effetti, in questa storia,  la specificità di ogni "evento" viene cancellata a partire dalla necessità di farlo rientrare nella logica totalizzante del paradigma colonialista. Una volta identificata tale logica, qualsiasi prova storica che la contraddica, o che la confuti, può e dev'essere liquidata come mero «apologismo sionista» [*14]. Wolfe dichiara apertamente che non ci si dovrebbe «sottomettere alla tirannia dei dettagli [storici]», se questo diminuisce il potere esplicativo della struttura. [*15] Il risultato è un ragionamento circolare nel quale il teorico filtra i dati storici per selezionare gli eventi che gli sembrano adattarsi a uno schema logico prestabilito, scarta tutti gli elementi che non tornano, e poi afferma che detti eventi - e quindi tutta la storia - possono essere spiegati solo per mezzo di quella logica. Allo stesso modo in cui i "dettagli" storici diventano insignificanti, di fronte all'accusa di genocidio mossa contro Israele, anche le questioni politiche vengono così relegate in secondo piano. Tentare di storicizzare o politicizzare il processo che ha portato alla Nakba, al 7 ottobre, o, come dice Sanders, alla guerra "vergognosa" che ne è seguita, significa rimanere irrimediabilmente bloccati al livello della "sovrastruttura" superficiale piuttosto che andare alla "base" oggettiva. Dal punto di vista colonialista - quali che siano le intenzioni soggettive dichiarate, le convinzioni politiche o le azioni concrete di un dato colono sionista - il loro significato oggettivo può essere solo quello dell'eliminazione. Al contrario, per quanto esplicitamente Hamas possa proclamare la sua intenzione di cancellare la presenza ebraica in Medio Oriente, esso continua, in quanto rappresentante di una presunta eterna sovranità "indigena", a essere percepito come colui che compie azioni di legittima restaurazione. La cancellazione delle distinzioni politiche ,si dimostra pertanto altrettanto efficace tra i "nativi", come lo fu tra i "coloni". In questo contesto, non sorprende la rapidità con cui Israele è stata condannata, e Hamas è stato assolto da qualsiasi intento genocida, all'indomani degli eventi del 7 ottobre. In quanto Stato colonizzatore, Israele è sempre stato un genocida, il che significa che nessuna risposta agli eventi del 7 ottobre potrebbe, alla fine, sfuggire alla logica dell'eliminazione.

   È questo il peso che il concetto di genocidio acquista nel dibattito contemporaneo. Esigere l'accettazione di questo termine, insistere sul fatto che nessun altro mezzo è accettabile per opporsi alla guerra, equivale ad abbandonare il terreno aperto della storia e della politica, in favore di uno spazio strettamente delimitato: quello di un significato essenzializzato e di una logica inesorabile. Viene pertanto richiesto che Israele sia ritenuto responsabile, non delle sue azioni, dei propri leader, della traiettoria politica che ha portato all'ascesa al potere di un'estrema destra sfrenata, ma che sia giudicato responsabile  della sua propria essenza, della sua stessa esistenza. A livello ontologico, non c'è nulla che un israeliano possa fare per purificarsi dal peccato originale dei coloni, e nulla che un palestinese possa fare per seminare dubbi circa la  giustezza delle sue azioni. Ironicamente, l'assolutismo di questa posizione non riflette nient'altro che l'assolutismo dell'estrema destra sionista; per la quale nessuna azione israeliana è ingiustificabile, e nessuna rivendicazione palestinese merita di essere presa in considerazione. Pertanto, riconoscere che si tratta di un "genocidio", non significa valutare questo o quell'elemento empirico che riguarda la condotta nella guerra da parte di Israele. Non si tratta, infatti, di un'affermazione che possa essere provata o confutata da delle prove: che la Corte Internazionale di Giustizia dichiari o meno Israele colpevole di genocidio, è qui irrilevante, come viene dimostrato dall'ampia diffusione di un'interpretazione errata del significato giuridico del termine «plausibile» nell'ordinanza della CIG emessa nel gennaio 2024 [*16]. In effetti, la definizione legale di "genocidio", con la sua enfasi obsoleta riguardante la "intenzione", viene sempre più criticata e vista come uno sfortunato ostacolo che blocca la nozione più flessibile – e più politicamente accettabile – di «genocidio strutturale» [*17]. Al contrario, oggi, l'invocazione della parola "genocidio" è diventata un incantesimo rituale, che segnala l'adesione senza riserve al campo concettuale "coloni-indigeni-genocidio", dove ogni elemento presuppone e chiama il successivo, il tutto si dimostra impermeabile a qualsiasi critica, o domanda. Una volta adottata, la Weltanschauung coloniale getta un velo di destoricizzazione e depoliticizzazione sul conflitto, rendendo impossibile percepire l'attuale catastrofe come qualcosa di diverso dall'espressione inevitabile di una logica irresistibile, e non piuttosto come il risultato contingente di una serie di scontri storici, lotte politiche e scelte morali. Eppure è solo riconoscendo questa contingenza storica – e, con essa, la possibilità che le cose sarebbero potute andare diversamente, e che sarebbero potute ancora cambiare – che diventa possibile assegnare responsabilità politiche e morali e - come Bernie Sanders - cercare di trovare una via d'uscita. Nel settembre 2024, Susan Watkins, redattrice di lunga data della "New Left Review", fermamente antisionista, è stata criticata dai suoi lettori per aver messo in discussione l'insistenza, da parte del movimento contro la guerra, sul termine "genocidio". Watkins aveva ammesso l'esistenza di un "persistente disaccordo" all'interno dell'NLR riguardo la "accuratezza analitica" del termine "genocidio" ai fin i della descrizione delle azioni di Israele. Ha suggerito che il termine "genocidio" fosse stato scelto dal movimento, non per la sua "accuratezza", ma piuttosto per rendere il suo discorso «il più potente possibile dal punto di vista emotivo» e quindi «radunare il maggior numero di persone». Pur riconoscendo l'efficacia di questa strategia, Watkins ha sostenuto che «scegliere i termini in base al loro carattere allarmistico, è una cattiva strategia politica» [*18]. Watkins ha giustamente osservato che l'uso del termine "genocidio" è, per la più parte, motivato dall'emozione e dall'identificazione con un gruppo, piuttosto che a partire da una lucida analisi. Ma si dovrebbe andare anche oltre la sua conclusione, perché guardare al conflitto israelo-palestinese solo attraverso il rigido prisma del «genocidio dei coloni-indigeni» non è semplicemente una questione di «cattiva politica»: significa rinunciare a qualsiasi approccio veramente politico. La logica totalizzante del modello colonialista non lascia alcuno spazio alla risoluzione dei conflitti, al riconoscimento reciproco di interessi comuni, alla creazione di nuovi modi di vita collettiva, i quali sono alla base dell'azione politica. Pertanto, così  si abbandona la politica in quanto fonte potenziale – forse l'unica – di un cambiamento concreto, e la sostituisce con un fatalismo abietto travestito da radicalismo intransigente. Nella misura in cui tale antipolitica fatalista può trovare espressione esterna, essa si limita ad atti terroristici isolati, in cui l'estasi momentanea della violenza pura ha la precedenza sulla strategia politica, sulla critica sociale o sulle considerazioni etiche. Non ha interesse a contribuire alla «soluzione a lungo termine» di Sanders, più di quanto non ne abbia a riconoscere la base storica comune delle identità israeliane e palestinesi, ad ammettere che ciascuna "parte" si è storicamente sviluppata attraverso e grazie l'altra, piuttosto che contro di essa. La minaccia che questo abbandono della politica e della storia costituisce per gli israeliani – e per qualsiasi ebreo che si rifiuti di ridurre le critiche all'azione israeliana a quella dell'esistenza israeliana stessa– non dovrebbe essere sottovalutata. Gli omicidi di Yaron Lischinsky e Sarah Milgrim per le strade di New York City, e la celebrazione di coloro per i quali l'unico destino che un "colono" merita è l'eliminazione fisica (piuttosto che concettuale), lo testimoniano. Ma se l'impasse dell'assolutismo antipolitico rimane l'unico linguaggio che i palestinesi sono autorizzati a usare per comprendere il loro passato, e immaginare il loro futuro, saranno tuttavia loro, ancora una volta, che ne pagheranno il prezzo.

Matthew Bolton - Giugno 4, 2025 - pubblicato su K. -

NOTE:

1    https://x.com/AyoCaesar/status/1759623139091243242
2    https://x.com/ASE/status/1758488156792385705
3    Philip Spencer, "L'Olocausto, il genocidio e il 7 ottobre", in David Hirsh & Rosa Freedman, (a cura di) Responses to 7 October: Law and Society (Routledge, 2024) 10.
4    Pankaj Mishra, "La Shoah dopo Gaza", London Review of Books, 46:6 (2024)
5    Il movimento "anti-tedesco" (o "anti-tedesco") è un movimento radicale della sinistra tedesca emerso dopo la riunificazione della Germania. Si distinse per il virulento antifascismo, l'antinazionalismo radicale e, in particolare, il sostegno incondizionato allo Stato di Israele, che considerava l'unico garante della sicurezza del popolo ebraico dopo l'Olocausto. [Nota dell'editore]
6    Etan Nechin, "L'avvocato israeliano che presenta un caso di incitamento al genocidio contro Israele presso la CPI", Haaretz, 24 gennaio 2025.
7    Adam Kirsch, "Sul colonialismo di insediamento: ideologia, violenza e giustizia" (W. W. Norton, 2024).
8    Patrick Wolfe, "Colonialismo di insediamento e l'eliminazione dei nativi", Journal of Genocide Research, 8:4 (2006): 387-409 (388)
9    Lorenzo Veracini, "Colonialismo di insediamento: una panoramica teorica" (Palgrave Macmillan, 2010), 45.
Art. 10    È del tutto concepibile che la fretta con cui il paradigma colonialista è stato applicato a Israele sia stata proprio dovuta all'opportunità che ha offerto di rovesciare l'Olocausto.
Art. 11    Benjamin Wexler, "L'ebreo, questo eterno colono... Una prospettiva canadese", K Review, giugno 2024
12    Patrick Wolfe, "Acquisto con altri mezzi: la Nakba palestinese e la conquista dell'economia da parte del sionismo", Settler Colonial Studies, 2:1 (2012): 133-171.
Art. 13    Lorenzo Veracini, "L'altro cambiamento: colonialismo di insediamento, Israele e l'occupazione", Journal of Palestine Studies, 42.2 (2013): 26-42.
Art. 14    Wolfe, "Acquisto", op. cit., p. 36.
Art. 15    Wolfe, Purchase, op. cit., p. 160.
Art. 16    Tony Dowson, "Israele, la Corte Internazionale di Giustizia e la plausibilità del genocidio", The Critic, 6 novembre 2024.
Art. 17    Mark LeVine e Eric Cheyfitz, "Israele, Palestina e la poetica del genocidio rivisitata", Journal of Genocide Research (prestampa online, 2025)
Art. 18    Entretien avec Arielle Angel, “Leaving Zion”, New Left Review, 148 (juillet/août 2024).

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