
Cosa significa "genocidio"
- di Matthew Bolton - Giugno 4, 2025 -
Nel febbraio del 2024, Ash Sarkar (una personalità dei social media britannici ha intervistato Bernie Sanders, senatore degli Stati Uniti che per molti anni è stato un pilastro della sinistra. In un estratto di quattro minuti, pubblicato sul suo account "X", il video è diventato rapidamente virale, registrando più di otto milioni di visualizzazioni. «Ho chiesto per ben tre volte a Bernie Sanders se pensasse che l'attacco di Israele a Gaza costituisse un genocidio» - ha scritto. «E lui così mi ha risposto» [*1]. La prima volta che gli è stato chiesto, Sanders ha risposto che «quello che Israele sta facendo è assolutamente vergognoso, orribile» ed ha aggiunto che lui sta facendo «tutto ciò che è in suo potere per fermarlo». Ha poi aggiunto di aver «guidato l'opposizione», al Congresso, contro un disegno di legge che avrebbe inviato 14 miliardi di dollari in aiuti statunitensi a Israele, e questo perché non voleva «vedere gli Stati Uniti complici di ciò che Netanyahu e i suoi amici di destra stanno attualmente infliggendo al popolo palestinese». Sanders chiede un «cessate il fuoco umanitario» e dei negoziati che portino a «trovare... una soluzione a lungo termine». Sarkar, insoddisfatta, gli pone nuovamente la domanda se si tratti o meno di un genocidio. «Si può discutere sulle definizioni», risponde Sanders, «ma ciò che importa, è prevenire ulteriori morti, e far arrivare gli aiuti a Gaza». Sarkar fa un ultimo tentativo, chiedendo: genocidio o no? «Possiamo parlarne», risponde Sanders, «ma, in termini concreti, che cosa significa?» E ha ripetuto che quello che sta cercando di fare, è fermare gli aiuti americani a Israele in modo che «il signor Netanyahu e i suoi amici di destra, si rendano conto che non è una buona idea continuare nella loro guerra di distruzione». Le reazioni sono state particolarmente virulente: Sanders è stato accusato di essere un «codardo senza spina dorsale», persino un "truffatore"! Lo dimostrerebbe il modo in cui egli "mena il can per l'aia". Alcuni vanno persino oltre. Sanders – che è ebreo e che ha trascorso in un kibbutz, simile a quelli attaccati il 7 ottobre, parte della sua giovinezza – sarebbe solo «un sionista, e il che spiega tutto ciò che egli ha fatto e detto da allora». Una settimana dopo, sempre su “X” è stato pubblicato un altro video, che mostrava Sanders mentre parlava all'Università di Dublino. Le sue opinioni sul termine "genocidio" divenivano così un po' più chiare. «Quando si arriva questo termine [genocidio]», egli dice, «mi sento un po' a disagio... E io non so, vedete, non so cosa sia il "genocidio". Bisogna stare attenti quando usiamo questo termine» [*2]. A sentire queste parole, coloro che hanno girato il video sono esplosi per la rabbia e hanno gridato a Sanders: «Questo è un genocidio... Bernie, tu stesso hai finanziato il sionismo, hai finanziato lo Stato dei coloni israeliani... Bugiardo, bugiardo, negazionista... Sei un assassino di bambini, sei un negazionista dell'Olocausto... I nativi americani sono stati anch'essi vittime di genocidio [da parte degli Stati Uniti], e non ti ho mai sentito parlare di genocidio». Da quel momento in poi, Sanders ha dovuto affrontare proteste simili nel corso delle sue apparizioni pubbliche.
Il trattamento riservato a Sanders - un uomo che ha riportato, quasi da solo, l'idea di socialismo democratico nell'agenda politica degli Stati Uniti - riassume perfettamente quale sia il ruolo di totem che, nella opposizione alla guerra di Israele contro Gaza, ha assunto il concetto di “genocidio”. Si tratta di un politico di spicco che rifiuta in toto questa guerra e che sta agendo concretamente contro di essa ai più alti livelli del governo americano. Eppure, poiché egli si rifiuta di usare un termine particolare per descrivere quale sia la violenza che egli cerca di prevenire, viene ridicolizzato, diffamato e scomunicato. E in questo, Sanders non è certo l'unico. L'opposizione a una guerra, la cui legittimità iniziale è stata progressivamente minata da uno svolgimento divenuto indifendibile, viene in tal modo frammentata e indebolita, e forse in maniera irreversibile. Questo serve a porre la domanda: se la priorità del movimento contro la guerra è quella di prevenire ulteriori morti e distruzioni a Gaza – e l'urgenza di una tale richiesta, soprattutto dopo la ripresa dei bombardamenti israeliani e il blocco degli aiuti che c'è stato dal marzo 2025, non può più essere messa in discussione – perché allora le è stato dato questo nome? Perché sacrificare l'unità del movimento sull'altare del "genocidio"? Da un lato, l'uso immediato del termine “genocidio” - le prime accuse sono state fatte mentre ancora si raccoglievano i corpi dai campi Nova e dai kibbutzim - è solo un'ulteriore prova di come negli ultimi decenni questa parola abbia subito un'inflazione semantica generale. Si va dalle accuse di genocidio rivolte a quei governi che hanno tardato a imporre misure di contenimento contro il Covid-19, alle formulazioni speciose riferite a nozioni di “genocidio dei trans” o di “genocidio dei bianchi”: la potenza emotiva veicolata da questo concetto lo ha reso un'arma retorica onnipresente e sfiancante se vista in un'economia dell'attenzione alimentata dai social network. Per quel che riguarda Israele, come sempre, la questione va oltre i semplici eccessi online. Per alcuni osservatori, l'attrattiva, che in questo contesto ha il concetto di "genocidio", risiede proprio nella possibilità di riuscire a invertire i ruoli di vittima e di carnefice, se non addirittura di rivolgere la memoria dell'Olocausto contro Israele. Accusare Israele – uno Stato nato dalle ceneri di una popolazione ebraica europea spazzata via – di genocidio, vale a dire, di fare agli altri ciò che gli è stato fatto in passato, pone lo Stato ebraico sullo stesso piano del regime nazista. Secondo le parole di Philip Spencer, «c'è sempre stato un fastidioso senso di colpa per quello che è stato fatto agli ebrei. L'accusa di genocidio cancella una volta per tutte questa colpa. Ora, chiunque può dire che gli ebrei non meritano più alcuna simpatia, perché ora sono altrettanto cattivi, o peggiori dei nazisti» [*3]. Simultaneamente, per Spencer, se si accusa erroneamente Israele di genocidio, a causa della sua risposta alle atrocità di Hamas, anch'esse caratterizzate a loro volta da un intento genocida, ecco che «il concetto e l'accusa di genocidio si capovolgono». L'entusiasmo, con cui così tante persone hanno colto l'opportunità per accusare Israele di genocidio all'indomani del 7 ottobre, ha di certo qualcosa a che fare con il brivido trasgressivo di rovesciare - e pertanto, finalmente, cancellare - l'Olocausto. Non è un caso che, per Pankaj Mishra – in una sua conferenza, pronunciata curiosamente sotto forma di sermone dal pulpito della chiesa di San Giacomo, a Clerkenwell – sia stata la guerra di Israele a «far saltare in aria l'edificio delle norme mondiali», costruito dopo "l'Olocausto", anziché l'invasione dell'Ucraina da parte di Putin, o l'uso flagrante di armi chimiche da parte di Bashar al-Assad, oppure l'invasione dell'Iraq da parte degli Stati Uniti [*4]. Non è un caso che i termini “campo di concentramento”, “Auschwitz”, “ghetto di Varsavia”, “genocidio” e “Olocausto” o “Shoah” siano stati a lungo utilizzati in modo ostentato per condannare il modo in cui Israele sta trattando Gaza e il popolo palestinese. Il "disagio" di Sanders, per l'utilizzo del termine da parte del movimento contro la guerra, deriva senza dubbio dalla sua percezione di questa dinamica. Il fatto che anche Sarkar sia consapevole di quale sia il peso di questa parola per Sanders, conferisce all'intervista il carattere sgradevole di voler essere un tentativo di estorcere una confessione forzata.
E tuttavia, limitare il significato dell'accusa di genocidio, rendendolo solo un rovesciamento dell'Olocausto, significa perdere di vista un aspetto importante del ruolo che oggi questo concetto gioca nei dibattiti contemporanei su Israele. Affermare che Israele starebbe commettendo un genocidio «come i nazisti», è un argomentazione che viene sostenuta sia a livello di azione che di intento. Malgrado le sue grossolane esagerazioni, e le fantasie che trasmette, rimane fondamentalmente un'affermazione empirica, la quale può essere dimostrata o confutata a partire da prove e argomenti ragionati. Significa che ci sono prove che Israele stia agendo in un modo che dovrebbe essere considerato un crimine di genocidio. Questo reato ha una sua definizione giuridica («atti commessi con l'intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale»), ed ha un apparato giuridico istituito per perseguirlo. In genere, un'accusa di genocidio come questa è diretta nei confronti di autori particolari: i leader politici, la fazione, il governo o il "regime" che ne sono ritenuti responsabili. In tal modo - con la possibile eccezione del movimento anti-Deutsch, di sinistra radicale [*5] - l'affermazione secondo cui i nazisti perpetrarono il genocidio contro gli ebrei d'Europa, non porta necessariamente ad argomentare che la Germania non dovrebbe esistere in quanto Stato. Piuttosto, lo Stato tedesco viene presentato come se esso fosse stato "dirottato" dall'estrema destra, la quale ha ottenuto il sostegno della popolazione combinando terrore e ideologia, per poi usare l'apparato statale per commettere un genocidio. Pertanto, la sconfitta del regime nazista fu così seguita da un programma di "denazificazione", volto a eliminare ciò che rimaneva dello Stato tedesco, e a reintegrarlo nell'ordine mondiale democratico. Questa storia è stata naturalmente complicata dal fatto che la Germania sia rimasta divisa in due per molto tempo, e che il "successo" della denazificazione è stato - nella migliore delle ipotesi - di breve durata. Ma rimane il fatto che l'accusa di genocidio nazista non era diretta allo Stato tedesco in sé. Nella sua intervista con Sarkar, Sanders cerca ripetutamente di rendere responsabile «il signor Netanyahu e i suoi amici di destra» della "vergognosa" condotta nella guerra. In questo, Sanders sta seguendo la medesima logica politica che, dopo la guerra, aveva portato alla denazificazione. L'estrema destra israeliana è responsabile della carneficina a Gaza, e pertanto dovrebbe essere privata dei fondi, messa sotto accusa e sostituita da un nuovo governo, il quale negozierebbe un accordo con i palestinesi e reintegrerebbe Israele nell'ordine democratico mondiale. Lo stesso argomento viene sostenuto anche dalla sinistra israeliana: In un contesto narrativo per lo più esente da antisemitismo, e dalla minaccia di un ribaltamento della Shoah, alcuni si spingono addirittura ad accusare di genocidio «Netanyahu e i suoi amici». E di certo oggi non esiste alcuna ragione a priori per cui i leader politici e militari di Israele non possano, in teoria, venire legittimamente accusati di genocidio: il fatto che i loro antenati abbiano subito essi stessi violenze genocide può conferire una dimensione speciale alle accuse che essi rivolgono ad Hamas, ma questo non li immunizza in alcun modo dalla possibilità di commettere, a loro volta, violenze simili contro altri. Inoltre, è ampiamente dimostrato che dopo il 7 ottobre alcuni politici israeliani si sono ripetutamente impegnati nell'incitamento al genocidio, per quanto non sia ancora stato dimostrato un legame diretto tra la retorica di estrema destra e le azioni sul campo [*6]. Ma per Sarkar e i suoi seguaci, i tentativi di politicizzare la guerra di Gaza – concentrandosi sulle azioni di individui o di specifiche correnti politiche – sono del tutto inadeguati, se non addirittura pericolosi. La politicizzazione, non solo chiama in causa le azioni e l'ideologia di Hamas, complicando una semplicistica favola morale attribuendo responsabilità a entrambe le parti, ma oscura anche il fatto che le differenze politiche tra destra, sinistra e centro in Israele sono ben reali. Una volta riconosciute tali differenze, si rischia di dover rinunciare a quello che - e qui la diversità con il caso tedesco diventa evidente - è il cuore di questo modo di criticare la guerra di Israele: la messa in discussione dello Stato ebraico stesso, e non già del “regime” di Netanyahu. In altre parole, l'accusa di genocidio, che Sarkar richiede a Sanders di avallare, non è rivolta a un particolare governo o fazione politica israeliana, per le sue azioni. In realtà, non si tratta affatto di una questione di azione, ma di esistenza. Le basi teoriche di questa concezione del "genocidio" - in quanto stato di esistenza, piuttosto che come questione di azione - sono assai chiare negli slogan, cantati a Dublino, dai critici di Sanders: Israele è uno "Stato coloniale", il cui genocidio dei palestinesi è simile a quello dei nativi americani. Ciò che vediamo all'opera in questa concezione del "genocidio", non è tanto il discorso che riguarda il rovesciamento dell'Olocausto, quanto piuttosto quello del colonialismo.
Come Adam Kirsch ha recentemente sottolineato, la nozione di genocidio è fondamentale ai fini della teoria del colonialismo di insediamento, il quale, a partire dalle sue origini moderne che si trovano nelle cosiddette "guerre storiche" australiane della metà degli anni 1990, ha finito per occupare un posto di rilievo in molte opere accademiche, e in movimenti politici [*7]. Secondo questa teoria, ciò che distingue le colonie come l'Australia, gli Stati Uniti e il Canada dal colonialismo "estrattivo" dell'India britannica, o dell'Algeria francese, è che in quest'ultima, per fornire manodopera, erano necessari dei "nativi". Così, nel primo caso, essi erano solo una seccatura e pertanto erano maturi per il genocidio. Per l'antropologo britannico-australiano Patrick Wolfe - uno dei padri fondatori della teoria del colonialismo di insediamento - praticamente, è una "logica di eliminazione" quella che si trova alla base di tutto ciò che una colonia di insediamento fa, dal momento iniziale della "invasione": pertanto, l'eliminazione dei "nativi" «è un principio organizzativo della società coloniale di insediamento, piuttosto che un evento una tantum (e obsoleto)»[8]. All'estremità più radicale del continuum colonialista della "eliminazione", troviamo lo sterminio fisico, l'ultima forma di trasgressione nella quale la distruzione del gruppo colonizzato raggiunge il suo culmine. Ma la cosa va ben oltre: per Lorenzo Veracini, caporedattore australiano della rivista "Settler Colonial Studies", la logica singolare di ciò che lui chiama "transfert" si estende, e va dalla "liquidazione" fisica e dallo «spostamento dei corpi... attraverso i confini» (cioè la pulizia etnica) fino al «trasferimento per assimilazione» – il quale consiste nell'offrire la cittadinanza ai "nativi" – e persino fino al «trasferimento diplomatico», vale a dire la creazione di «entità politiche sovrane o semi-sovrane» controllate in modo indipendente dagli stessi "nativi" [*9]. Una volta che si afferra questo concetto radicalmente ampliato di "eliminazione" o di "trasferimento", ivi compresa l'equivalenza che sembra stabilirsi tra l'annientamento fisico, la cittadinanza e la creazione di "entità politiche sovrane", diventa allora chiaro che, una volta assegnatogli lo statuto di "Stato colonizzatore", nulla di ciò che lo Stato interessato intraprende, in modo esplicito o implicito, potrà più invalidare un tale stato. Come dice Kirsch, «l'ideologia del colonialismo di insediamento propone un nuovo sillogismo: se la colonizzazione è un'invasione genocida, e se l'invasione è una struttura permanente, e non un evento completato, ecco che allora tutto ciò che – e forse persino chiunque – oggi sostiene una società coloniale di insediamento, diventa anche parte di una logica genocida». Il genocidio è così l'essenza stessa dello stato di insediamento: il genocidio è lo Stato, e lo Stato è il genocidio. Ne consegue, che non c'è nulla che si possa fare per salvare uno Stato colonialista. Mentre una "colonia estrattiva" (a volte chiamata anche "colonia di sfruttamento") gestita da una minoranza di coloni, può essere rovesciata da un movimento di liberazione nazionale anticolonialista; i resti di un popolo "indigeno" eliminato, invece non possono distruggere uno Stato di lunga data nel quale i "coloni" costituiscono la stragrande maggioranza della popolazione. A differenza dello Stato tedesco post-nazista, il quale potrebbe almeno tentare di fornire una qualche certa riparazione per i suoi atti di genocidio, l'unica riparazione che uno Stato coloniale può fornire, per il suo essere genocida, è la sua abolizione. L'opposizione al colonialismo di insediamento, e alla sua essenza genocida, è per definizione totale o inesistente. Detto in termini politici concreti, ciò significa invariabilmente che essa non esiste: come dice un famigerato tweet, ci possono essere solo «tendenze, saggi, articoli». Esiste, tuttavia, uno "Stato coloniale" laddove la prospettiva dell'abolizione sembra essere a portata di mano: Israele.
Pur se la moderna teoria del colonialismo di insediamento, rimane una produzione tipicamente australiana, è tuttavia possibile risalire a un'origine sotterranea, nella quale Israele ci fornisce il modello per il colonialismo di insediamento. Il lavoro di alcuni teorici dell'OLP degli anni '60, come Fayez Sayegh, contiene di certo alcuni elementi di quella "logica dell'eliminazione", che sarebbe stata poi formalizzata da Wolfe e Veracini. In ogni caso, questi ultimi sono stati di certo pronti ad applicare il loro modello di «struttura e non-evento» a Israele, alla sua creazione e al suo rapporto con quelli che sono stati sempre più descritti come i "nativi" [*10]. In generale, l'uso del termine "indigeno" non è un criterio, vale a dire che non si tratta di affermare che i palestinesi sono presenti su questa terra da "tempo immemorabile", come per gli aborigeni dell'Australia o per i nativi americani (anche se questa dubbia affermazione, nel discorso popolare sta diventando sempre più comune). L'indigenità palestinese,viene qui piuttosto intesa in termini relazionali: i palestinesi sono indigeni a causa del fatto che gli israeliani sono coloni. Il concetto di "indigenità" costituisce pertanto il terzo elemento del sillogismo colonialista: non si può dire "colono" (israeliano) senza dire "indigenità" (palestinese); o "genocidio"! Tuttavia, il tentativo di trasporre la storia di Israele nel modello australiano non è stato privo di problemi. Come ha sottolineato Benjamin Wexler, Wolfe fu costretto a riconoscere una serie di caratteristiche distinte relative alla colonizzazione ebraica in Medio Oriente, che la differenziavano dal colonialismo europeo praticato altrove [*11]. Wolfe ammette che i coloni ebrei non avevano una "madrepatria" coloniale dalla quale erano emigrati; fino alle guerre arabo-ebraiche del 1947-1948, gli ebrei avevano acquistato legalmente la terra, anziché "invaderla" e prenderla con la forza; nel caso degli ebrei, in modo unico, un'identità nazionale indipendente aveva preceduto la colonizzazione, piuttosto che seguirla; da parte sua, la scelta del territorio non si basava su considerazioni economiche o politiche fortuite, ma si intrecciava profondamente con l'identità dei coloni: un'identità modellata da una narrazione storica risalente a una precedente espulsione dalla medesima terra in cui cercavano di (ri)stabilirsi. Inizialmente, la colonizzazione ebraica fu limitata dal desiderio che il colonizzatore aveva di sbarazzarsi di appezzamenti di terra contigui; piuttosto che il modello in continua espansione americano o australiano di colonizzazione "di confine". Era pertanto caratterizzata dalla proprietà collettiva della terra, piuttosto che dalla proprietà privata [*12]. Da parte sua, Veracini sostiene che Israele differisce dagli Stati Uniti e dall'Australia perché è un insediamento incompleto: l'accettazione della ripartizione, le guerre territoriali intermittenti, e l'esistenza di arabi israeliani (o cittadini palestinesi di Israele) significano che Israele non è stata in grado di «superare sè stessa», vale a dire, di cancellare le sue proprie origini.[*13] È la natura parziale del progetto coloniale israeliano a renderlo particolarmente vulnerabile agli attacchi. Tuttavia, anziché concludere che il numero e l'importanza di queste eccezioni segnalassero il fallimento del concetto di "colonialismo di insediamento", e della logica di eliminazione che lo accompagna, al fine di spiegare la storia di Israele, Wolfe è giunto alla conclusione opposta. Le varie eccezioni sono state evidenziate per dimostrare proprio che, nella sua stessa essenza, il sionismo è ancor più un progetto colonialista, ed è ancora più impegnato nell'eliminazione di quelli che si adattano perfettamente a un tale schema. Al centro di questa argomentazione, ci sono gli eventi della guerra del 1947-1949, che poi in seguito, nel discorso palestinese, sarebbero stati concettualizzati come la "Nakba" (o "catastrofe"). Per Wolfe, questi episodi di guerra, segnati dall'espulsione violenta e dalla fuga degli abitanti arabi in delle parti di quello che poi sarebbe diventato lo Stato di Israele, rivelarono quella fondamentale "logica" di eliminazione che è sempre stata l'essenza nascosta del sionismo. In realtà, Wolfe legge a ritroso la storia a partire dagli eventi della "Nakba". Egli sostiene che, malgrado tutta la storia precedente di limitate e non violente acquisizioni legali di terreni, e tutte le "rassicurazioni" in cui i governanti sionisti «affermavano la loro intenzione di vivere in armonia con la popolazione araba della Palestina», sono state solo le circostanze contingenti – la presenza degli inglesi, la relativa assenza di immigrati ebrei prima dell'Olocausto – ad aver impedito ai coloni sionisti di imbarcarsi in una campagna di appropriazione violenta delle terre. La Nakba «è stata la prima opportunità per il sionismo» di realizzare un progetto a lungo maturato, vale a dire «un esercizio più esclusivo della logica dell'eliminazione dei coloni», rispetto a qualsiasi cosa vista in Australia e Nord America. La Nakba è stata pertanto un "consolidamento" dell'essenza stessa del sionismo, «piuttosto che un punto di partenza». Questo argomento, in quanto tale, è stato ripreso dai teorici del colonialismo di insediamento, i quali hanno ricostruito gli eventi che hanno preceduto, accompagnato e seguito la guerra del 1947-1949 – fino ai giorni nostri – in modo tale da integrarli perfettamente nell'architettura concettuale prestabilita della teoria di Wolfe. La Nakba viene così spogliata del suo status di "evento" storico distinto - con le sue cause e conseguenze specifiche - e diventa una "struttura" genocida globale, che si dice abbia pertanto determinato la storia di Israele e della Palestina fin dall'arrivo dei primi coloni ebrei (o rimpatriati). In effetti, in questa storia, la specificità di ogni "evento" viene cancellata a partire dalla necessità di farlo rientrare nella logica totalizzante del paradigma colonialista. Una volta identificata tale logica, qualsiasi prova storica che la contraddica, o che la confuti, può e dev'essere liquidata come mero «apologismo sionista» [*14]. Wolfe dichiara apertamente che non ci si dovrebbe «sottomettere alla tirannia dei dettagli [storici]», se questo diminuisce il potere esplicativo della struttura. [*15] Il risultato è un ragionamento circolare nel quale il teorico filtra i dati storici per selezionare gli eventi che gli sembrano adattarsi a uno schema logico prestabilito, scarta tutti gli elementi che non tornano, e poi afferma che detti eventi - e quindi tutta la storia - possono essere spiegati solo per mezzo di quella logica. Allo stesso modo in cui i "dettagli" storici diventano insignificanti, di fronte all'accusa di genocidio mossa contro Israele, anche le questioni politiche vengono così relegate in secondo piano. Tentare di storicizzare o politicizzare il processo che ha portato alla Nakba, al 7 ottobre, o, come dice Sanders, alla guerra "vergognosa" che ne è seguita, significa rimanere irrimediabilmente bloccati al livello della "sovrastruttura" superficiale piuttosto che andare alla "base" oggettiva. Dal punto di vista colonialista - quali che siano le intenzioni soggettive dichiarate, le convinzioni politiche o le azioni concrete di un dato colono sionista - il loro significato oggettivo può essere solo quello dell'eliminazione. Al contrario, per quanto esplicitamente Hamas possa proclamare la sua intenzione di cancellare la presenza ebraica in Medio Oriente, esso continua, in quanto rappresentante di una presunta eterna sovranità "indigena", a essere percepito come colui che compie azioni di legittima restaurazione. La cancellazione delle distinzioni politiche ,si dimostra pertanto altrettanto efficace tra i "nativi", come lo fu tra i "coloni". In questo contesto, non sorprende la rapidità con cui Israele è stata condannata, e Hamas è stato assolto da qualsiasi intento genocida, all'indomani degli eventi del 7 ottobre. In quanto Stato colonizzatore, Israele è sempre stato un genocida, il che significa che nessuna risposta agli eventi del 7 ottobre potrebbe, alla fine, sfuggire alla logica dell'eliminazione.
È questo il peso che il concetto di genocidio acquista nel dibattito contemporaneo. Esigere l'accettazione di questo termine, insistere sul fatto che nessun altro mezzo è accettabile per opporsi alla guerra, equivale ad abbandonare il terreno aperto della storia e della politica, in favore di uno spazio strettamente delimitato: quello di un significato essenzializzato e di una logica inesorabile. Viene pertanto richiesto che Israele sia ritenuto responsabile, non delle sue azioni, dei propri leader, della traiettoria politica che ha portato all'ascesa al potere di un'estrema destra sfrenata, ma che sia giudicato responsabile della sua propria essenza, della sua stessa esistenza. A livello ontologico, non c'è nulla che un israeliano possa fare per purificarsi dal peccato originale dei coloni, e nulla che un palestinese possa fare per seminare dubbi circa la giustezza delle sue azioni. Ironicamente, l'assolutismo di questa posizione non riflette nient'altro che l'assolutismo dell'estrema destra sionista; per la quale nessuna azione israeliana è ingiustificabile, e nessuna rivendicazione palestinese merita di essere presa in considerazione. Pertanto, riconoscere che si tratta di un "genocidio", non significa valutare questo o quell'elemento empirico che riguarda la condotta nella guerra da parte di Israele. Non si tratta, infatti, di un'affermazione che possa essere provata o confutata da delle prove: che la Corte Internazionale di Giustizia dichiari o meno Israele colpevole di genocidio, è qui irrilevante, come viene dimostrato dall'ampia diffusione di un'interpretazione errata del significato giuridico del termine «plausibile» nell'ordinanza della CIG emessa nel gennaio 2024 [*16]. In effetti, la definizione legale di "genocidio", con la sua enfasi obsoleta riguardante la "intenzione", viene sempre più criticata e vista come uno sfortunato ostacolo che blocca la nozione più flessibile – e più politicamente accettabile – di «genocidio strutturale» [*17]. Al contrario, oggi, l'invocazione della parola "genocidio" è diventata un incantesimo rituale, che segnala l'adesione senza riserve al campo concettuale "coloni-indigeni-genocidio", dove ogni elemento presuppone e chiama il successivo, il tutto si dimostra impermeabile a qualsiasi critica, o domanda. Una volta adottata, la Weltanschauung coloniale getta un velo di destoricizzazione e depoliticizzazione sul conflitto, rendendo impossibile percepire l'attuale catastrofe come qualcosa di diverso dall'espressione inevitabile di una logica irresistibile, e non piuttosto come il risultato contingente di una serie di scontri storici, lotte politiche e scelte morali. Eppure è solo riconoscendo questa contingenza storica – e, con essa, la possibilità che le cose sarebbero potute andare diversamente, e che sarebbero potute ancora cambiare – che diventa possibile assegnare responsabilità politiche e morali e - come Bernie Sanders - cercare di trovare una via d'uscita. Nel settembre 2024, Susan Watkins, redattrice di lunga data della "New Left Review", fermamente antisionista, è stata criticata dai suoi lettori per aver messo in discussione l'insistenza, da parte del movimento contro la guerra, sul termine "genocidio". Watkins aveva ammesso l'esistenza di un "persistente disaccordo" all'interno dell'NLR riguardo la "accuratezza analitica" del termine "genocidio" ai fin i della descrizione delle azioni di Israele. Ha suggerito che il termine "genocidio" fosse stato scelto dal movimento, non per la sua "accuratezza", ma piuttosto per rendere il suo discorso «il più potente possibile dal punto di vista emotivo» e quindi «radunare il maggior numero di persone». Pur riconoscendo l'efficacia di questa strategia, Watkins ha sostenuto che «scegliere i termini in base al loro carattere allarmistico, è una cattiva strategia politica» [*18]. Watkins ha giustamente osservato che l'uso del termine "genocidio" è, per la più parte, motivato dall'emozione e dall'identificazione con un gruppo, piuttosto che a partire da una lucida analisi. Ma si dovrebbe andare anche oltre la sua conclusione, perché guardare al conflitto israelo-palestinese solo attraverso il rigido prisma del «genocidio dei coloni-indigeni» non è semplicemente una questione di «cattiva politica»: significa rinunciare a qualsiasi approccio veramente politico. La logica totalizzante del modello colonialista non lascia alcuno spazio alla risoluzione dei conflitti, al riconoscimento reciproco di interessi comuni, alla creazione di nuovi modi di vita collettiva, i quali sono alla base dell'azione politica. Pertanto, così si abbandona la politica in quanto fonte potenziale – forse l'unica – di un cambiamento concreto, e la sostituisce con un fatalismo abietto travestito da radicalismo intransigente. Nella misura in cui tale antipolitica fatalista può trovare espressione esterna, essa si limita ad atti terroristici isolati, in cui l'estasi momentanea della violenza pura ha la precedenza sulla strategia politica, sulla critica sociale o sulle considerazioni etiche. Non ha interesse a contribuire alla «soluzione a lungo termine» di Sanders, più di quanto non ne abbia a riconoscere la base storica comune delle identità israeliane e palestinesi, ad ammettere che ciascuna "parte" si è storicamente sviluppata attraverso e grazie l'altra, piuttosto che contro di essa. La minaccia che questo abbandono della politica e della storia costituisce per gli israeliani – e per qualsiasi ebreo che si rifiuti di ridurre le critiche all'azione israeliana a quella dell'esistenza israeliana stessa– non dovrebbe essere sottovalutata. Gli omicidi di Yaron Lischinsky e Sarah Milgrim per le strade di New York City, e la celebrazione di coloro per i quali l'unico destino che un "colono" merita è l'eliminazione fisica (piuttosto che concettuale), lo testimoniano. Ma se l'impasse dell'assolutismo antipolitico rimane l'unico linguaggio che i palestinesi sono autorizzati a usare per comprendere il loro passato, e immaginare il loro futuro, saranno tuttavia loro, ancora una volta, che ne pagheranno il prezzo.
Matthew Bolton - Giugno 4, 2025 - pubblicato su K. -
NOTE:
1 https://x.com/AyoCaesar/status/1759623139091243242
2 https://x.com/ASE/status/1758488156792385705
3 Philip Spencer, "L'Olocausto, il genocidio e il 7 ottobre", in David Hirsh & Rosa Freedman, (a cura di) Responses to 7 October: Law and Society (Routledge, 2024) 10.
4 Pankaj Mishra, "La Shoah dopo Gaza", London Review of Books, 46:6 (2024)
5 Il movimento "anti-tedesco" (o "anti-tedesco") è un movimento radicale della sinistra tedesca emerso dopo la riunificazione della Germania. Si distinse per il virulento antifascismo, l'antinazionalismo radicale e, in particolare, il sostegno incondizionato allo Stato di Israele, che considerava l'unico garante della sicurezza del popolo ebraico dopo l'Olocausto. [Nota dell'editore]
6 Etan Nechin, "L'avvocato israeliano che presenta un caso di incitamento al genocidio contro Israele presso la CPI", Haaretz, 24 gennaio 2025.
7 Adam Kirsch, "Sul colonialismo di insediamento: ideologia, violenza e giustizia" (W. W. Norton, 2024).
8 Patrick Wolfe, "Colonialismo di insediamento e l'eliminazione dei nativi", Journal of Genocide Research, 8:4 (2006): 387-409 (388)
9 Lorenzo Veracini, "Colonialismo di insediamento: una panoramica teorica" (Palgrave Macmillan, 2010), 45.
Art. 10 È del tutto concepibile che la fretta con cui il paradigma colonialista è stato applicato a Israele sia stata proprio dovuta all'opportunità che ha offerto di rovesciare l'Olocausto.
Art. 11 Benjamin Wexler, "L'ebreo, questo eterno colono... Una prospettiva canadese", K Review, giugno 2024
12 Patrick Wolfe, "Acquisto con altri mezzi: la Nakba palestinese e la conquista dell'economia da parte del sionismo", Settler Colonial Studies, 2:1 (2012): 133-171.
Art. 13 Lorenzo Veracini, "L'altro cambiamento: colonialismo di insediamento, Israele e l'occupazione", Journal of Palestine Studies, 42.2 (2013): 26-42.
Art. 14 Wolfe, "Acquisto", op. cit., p. 36.
Art. 15 Wolfe, Purchase, op. cit., p. 160.
Art. 16 Tony Dowson, "Israele, la Corte Internazionale di Giustizia e la plausibilità del genocidio", The Critic, 6 novembre 2024.
Art. 17 Mark LeVine e Eric Cheyfitz, "Israele, Palestina e la poetica del genocidio rivisitata", Journal of Genocide Research (prestampa online, 2025)
Art. 18 Entretien avec Arielle Angel, “Leaving Zion”, New Left Review, 148 (juillet/août 2024).